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Archive for the 'Sociologia' Category

Fatti o valori: cosa conta nella percezione del rischio climatico? (II parte)

Dal clima all’economia e alla politica

Numerosi studiosi hanno proposto diverse interpretazioni della difficoltà degli esseri umani ad agire contro il cambiamento climatico, fornendo diverse visioni del peso della razionalità, della cultura, dei fatti e dai valori. Lo studio dei comportamenti in campo economico e politico permette di chiarire meglio questi meccanismi.

Dobbiamo a Daniel Kahneman e Amos Tversky la dimostrazione  di come le decisioni dell’homo oeconomicus violino sistematicamente alcuni principi di razionalità e siano guidate da un serie di bias cognitivi, ossia una sorta di scorciatoie dei processi di valutazione che rendono più veloci, quanto erronee, le decisioni (D.Kahneman, Pensieri lenti, pensieri veloci, Milano 2012). Grazie a questi lavori, Kahneman nel 2002 è stato insignito del Premio Nobel per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza”.

L’assunto che nelle scelte economiche i soggetti operino secondo il principio della massimizzazione dell’utilità è rimasta come ipotesi di studio, ma non ha retto alla prova dei fatti e degli studi degli economisti comportamentali. L’avversione alla perdita, la sovra-confidenza, l’effetto pigmalione sono solo alcune delle scorciatoie che ci inducono a sistematici errori di valutazione relativamente al rischio di perdita, piuttosto che di guadagno, nelle scelte economiche e finanziarie. Tra questi “pensieri veloci”, uno è particolarmente calzante nel merito della valutazione del rischio climatico: quello che Kahneman chiama “euristica dell’affetto”. Si tratta di situazioni in cui le persone giudicano e decidono consultando le proprie emozioni, del tipo: “questa cosa mi piace o non mi piace affatto?”.  In questo modo, la risposta a un quesito facile (“che impressione mi dà?”) funge da risposta per il corrispettivo quesito molto più difficile: “cosa ne penso? “. Va da sé che, se l’impressione è negativa, “il cambiamento climatico non mi piace” e, pertanto,  la disponibilità ad agire ne risulta Continue Reading »

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Fatti o valori: cosa conta nella percezione del rischio climatico? (I parte)

Nell’estate del crollo dei ghiacci della Marmolada, della grande siccità, degli incendi e dell’appello della comunità scientifica italiana perché la politica si prenda carico del cambiamento climatico, rimane la sensazione di una sproporzione tra l’enormità della questione e la relativa scarsa reattività del corpo sociale e politico. La distanza, insomma, tra comunicazione e partecipazione, conoscenza e mobilitazione. Quasi che non bastassero gli enormi interessi in gioco per spiegare l’in-azione climatica, l’inerzia politica.

Natura o cultura, psicologia o istituzioni?

Alcuni anni fa Dan Gilbert, affermato professore di psicologia ad Harvard e columnist del LA Times, sostenne che la mente umana era poco attrezzata per rispondere alla minaccia del riscaldamento globale. Secondo Gilbert il cervello si è evoluto per rispondere a minacce che hanno quattro caratteristiche che il global warming non presenta.

In primo luogo il riscaldamento globale “non ha i baffi”. Non è cioè associato a un’azione intenzionale di una o più persone e il nostro cervello è specializzato nel pensare e decifrare minacce “personalizzabili”.

Il secondo motivo è che il global warming non viola la nostra sensibilità morale, almeno non direttamente. Non ci induce pensieri ripugnanti, inaccettabili, indecenti e le emozioni morali sono un forte allarme per il cervello.

Il terzo motivo è che se vediamo una minaccia nel global warming la vediamo “per il futuro, non per il pomeriggio”. Il global warming mancherebbe quindi di immanenza.

Infine il global warming è troppo lento per essere avvertito come una minaccia che spinge all’azione. Secondo Gilbert, e altri studiosi, “l’inazione climatica”, troverebbe radici nella stessa natura dei processi cognitivi prodotti dall’evoluzione.

 

Robert Gifford, docente di psicologia e studi ambientali alla Victoria University, ha invece individuato sette barriere psicologiche all’azione rispetto ai cambiamenti climatici, che ha chiamato i “draghi dell’inazione”:

– cognizione limitata sul problema

– visioni ideologiche del mondo che tendono a precludere atteggiamenti pro-ambientali

– confronti con altre persone chiave

– costi irrecuperabili e slancio comportamentale

– discrezionalità verso esperti e autorità

– rischi percepiti di cambiamento

– cambiamento comportamentale positivo ma inadeguato.

Gifford, che dirige un laboratorio che indaga sistematicamente questi “draghi”, è dubbioso sul fatto che rimuovere tutte le barriere sia comunque sufficiente a spingere all’azione.

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Perché così tardi? Perché così lenti?

È indubbio che abbiamo accumulato un grave ritardo nell’affrontare la crisi climatica. Gli obiettivi oggi messi in campo, le riduzioni drastiche previste per i prossimi tre decenni, derivano da questo ritardo, dall’incremento delle emissioni globali di gas climalteranti avvenuto negli scorsi decenni.

Non si è però discusso abbastanza sui motivi profondi di questo ritardo. Su questo blog abbiamo cercato di contrastare la disinformazione sul tema del cambiamento climatico, abbiamo discusso del ruolo dei mercanti di dubbi.

Ma è sicuramente necessario approfondire le dinamiche psico-sociali che sono alla base dei comportamenti quotidiani delle persone, delle aziende, dei decisori politici. Sono infatti gli individui e le comunità, con i loro stili di vita e le loro scelte di consumo, i destinatari finali delle produzioni che determinano emissioni climalteranti, nonché i soggetti attivi delle possibili azioni di mitigazione e adattamento. E sono altresì i soggetti che devono decidere con il loro voto e altre forme di azione politica il supporto ai decisori che a livelli più alti influiscono sull’implementazione delle azioni di contrasto alla crisi climatica

Di questo si occuperà il workshop “PERCHÉ COSÌ TARDI? PERCHÉ COSÌ LENTI? Aspetti psico-sociali nel ritardo alla lotta ai cambiamenti climatici.  Dai comportamenti quotidiani alle azioni collettive”, organizzato dal Gruppo di lavoro “Cambiamenti climatici” della rete delle Università per lo sviluppo sostenibile, che si svolgerà online il giorno 17 giugno 2021 (accedere a questa pagina per iscriversi partecipare – l’evento è gratuito).
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Percezione dei cambiamenti climatici: questione di scienza o di psicologia?

Cittadini e politici non sembrano avere colto l’urgenza del problema. È colpa di chi comunica la scienza? Dell’ignoranza scientifica? O c’e’ dell’altro? Questo tema, già affrontato in post precedenti (qui e qui) e in altri blog, è stato oggetto di questo recente commento di Adam Corner sulla rivista Nature Climate Change.

 

Psicologia: cultura scientifica e opinioni sul clima

Coloro che lavorano nel settore della comunicazione dei cambiamenti climatici si trovano ad affrontare un compito non invidiabile. Nonostante la ricerca scientifica abbia ormai abbondantemente discusso le cause e le prevedibili conseguenze dei cambiamenti climatici, le emissioni di anidride carbonica continuano ad aumentare e le misure necessarie ad affrontare questo problema sono scarse. Abbiamo bisogno di diventare più bravi a parlare di scienze del clima, a “educare” il pubblico e ad alzare la voce sulla realtà dei cambiamenti climatici? Sembrerebbe di no. Un recente studio apparso su Nature Climate Change (Kahan e colleghi) [1] dimostra che questa strategia rischia di avere una efficacia limitata. Anzi, potrebbe accrescere lo scetticismo o il disinteresse dei  cittadini.

I ricercatori hanno studiato la relazione tra cultura scientifica e preoccupazione per i rischi dei cambiamenti climatici e hanno trovato un risultato non intuitivo: la rischiosità percepita e la preoccupazione non aumentano con il livello di conoscenze. Inoltre, sembra che un alto livello di cultura scientifica abbia un effetto polarizzante tra chi è predisposto, da idee sociali e politiche, a rifiutare o accettare le scienze del clima. Come è stato mostrato in alcune ricerche (qui e qui) [2,3], una visione individualistica, contraria a   interferenze politiche nei processi decisionali personali o aziendali, e favorevole a forme molto strutturate di ordine sociale, rende più probabile lo scetticismo sui cambiamenti climatici. Continue Reading »

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