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Return of the river: l’epopea del fiume Elwha e delle sue dighe

Ambientato nello stato di Washington, USA, il documentario racconta l’epopea del fiume Elwha, imbrigliato da impianti idroelettrici fin dai primi del ‘900 e il lavoro di scienziati, politici e comunità locali per restituirlo alla condizione originale. Interessante per riflettere sui conflitti fra i diritti umani, la salvaguardia dell’ambiente e il necessario aumento della produzione di energia rinnovabile.

Il film Return of the River segue per quattro anni il progetto di rimozione di due impianti idroelettrici (dam removal) sul fiume Elwha, iniziato nel 2011 con l’abbattimento della diga di Elwha e terminato nel 2014, con quello della diga del Glines Canyon. Prodotto da Sarah Hurt, per la regia di John Gussman e Jessica Plumb, è ora disponibile in HD e può essere acquistato in DVD o affittato per la visione singola.

La storia. Il fiume Elwha è situato nel Parco della Olympic Peninsula, nello stato di Washington, pochi km a nord di Seattle. Nel tardo ‘800, la conquista dell’ovest e la necessità di legna per costruzione e di energia spinse i coloni americani ad occupare l’area della penisola, di fatto invadendo l’habitat della tribù indiana degli Elwha Klallan, stanziali del posto. Già nel 1910 la costruzione della diga di Elwha (seguita nel 1926 dalla diga di Glines Canyon) portò alla regimazione del fiume, con il successivo utilizzo delle acque per scopi idroelettrici. Le dighe portarono ad un rapido sviluppo della popolazione locale, ma il prezzo ambientale e sociale da pagare fu da subito chiaro. Gli sbarramenti fluviali bloccarono le migrazioni dei salmoni, interruppero il flusso di sedimenti e legna, oltre a provocare la sommersione di abitazioni e siti sacri per le tribù locali.  

Da allora, per quasi un secolo il naturale equilibrio del fiume è stato fortemente alterato. L’interruzione della continuità del fiume, presupposto base per il trasporto dei nutrienti e sedimenti, nonché per la mobilità degli organismi viventi, ha ovviamente minato il delicato equilibrio del sistema fluviale. Altresì, le modifiche apportate hanno oscurato la cultura locale, fortemente basata sull’interconnessione tra il fiume e le popolazioni locali (p.es. per l’alimentazione delle tribù locali, in larga parte basata sulla disponibilità di salmoni Chinook).  

 

Figura 1. Fiume Elwha. Press Kit. a) Prima della rimozione della diga. 

 

Figura 2. Fiume Elwha. Press Kit. Diga del Glines Canyon.

 

Figura 3. Fiume Elwha. Press Kit. Vista aerea della foce dell’Elwha.

 

Nel 1992 tuttavia, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato l’Elwha River Ecosystem and Fisheries Restoration Act, una legge che autorizzava il restauro dell’ecosistema originale anche rimuovendo le dighe, dato l’oramai trascurabile contributo nell’ambito del sistema di produzione idroelettrica complessivo.  

Sono serviti però 20 anni alla comunità scientifica ed ai decisori politici per comprendere come meglio agire. Data l’altezza delle dighe (33 m quella di Elwha e 64 m quella del Glines Canyon) e la temperatura (alta) e livello (basso) di ossigeno dei laghi formatisi, l’inserimento di sistemi complessi di risalita per pesci non sarebbe stato sufficiente a garantire l’accesso all’habitat adatto alla riproduzione, nella zona più alta del bacino. Inoltre il costo dei lavori di installazione di tali sistemi si stimava troppo alto in relazione al valore economico degli impianti.

La demolizione delle dighe avrebbe comportato il riversarsi di enormi quantità di sedimento nel fiume (soprattutto dalla diga di Glines Canyon), trasformando in pratica il deflusso nel fiume in una colata di detrito, con effetti devastanti. Si è quindi dovuto ideare un meccanismo di rimozione graduale, con gestione oculata del sedimento.  

I lavori cominciati nel settembre 2011 con la rimozione controllata della diga di Elwha, seguita nel 2012 dalla diga di Glines Canyon, sono finiti nell’agosto del 2014.  Si stima che occorreranno dai 15 ai 20 anni per il recupero totale dell’ecosistema. Vi sono tuttavia incognite riguardo alle possibilità di successo finale, poiché, come detto, progetti di dam removal di tali dimensioni sono assai rari (se ne enumerano poche decine). Ove tale progetto fosse di successo, costituirebbe un importante precedente nello studio delle metodologie di dam removal.

L’utilizzo dell’energia idroelettrica, per molti versi pulita e spesso considerata un’ottima alternativa all’uso dei combustibili fossili per la mitigazione dei cambiamenti climatici, ha tuttavia effetti ambientali (p.es. la produzione di metano, fortemente climalterante) e sociali (dalla rilocazione di migliaia di persone, alla scomparsa di intere aree spesso di importanza culturale rilevante: si veda il report della World Commission on Dams, WCD) non trascurabili e spesso non reversibili.

Problematiche simili emergono ora in varie parti del mondo, p.es. in Sud America, con il progetto Hydro-Aisen, in Asia (p.es. l’opposizione in Cambogia, Vietnam e Tailandia alla costruzione di 11 dighe sul Mekong; in Cina, con la contestata e monumentale diga delle Tre Gole; in India, con il progetto faraonico sul fiume Narmada; in Pakistan, con il progetto della diga di Munda); in Africa (p.es. in Etiopia, con la diga italiana in costruzione sull’Omo, progetto controverso),

Ovunque la domanda crescente di energia si scontra con la necessità di mitigare le emissioni climalteranti, di preservare l’ambiente naturale e con i diritti umani delle popolazioni locali. Gli impianti idroelettrici generano spesso corruzione, land-grabbing, conflitti economici e politici non solo nazionali, come documentano, fra gli altri gli studi di International Rivers.  

Il report, pubblicato nel 2000, della World Commission on Dams, una commissione costituita nel 1998 dalla Banca Mondiale e dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) con l’obiettivo di studiare l’impatto di queste grandi opere, sancisce che:

“…le (grandi, ndr) dighe hanno dato un contributo importante e significativo allo sviluppo umano ed i benefici derivati sono considerevoli…in troppi casi un prezzo inaccettabile e spesso non necessario è stato pagato per assicurare tali benefici, specialmente in termini sociali ed ambientali, dalle persone allontanate, dalle comunità a valle, dai contribuenti e dall’ecosistema naturale”

e

“…nessuna diga dovrebbe essere costruita senza che via sia una “accettazione dimostrabile” da parte delle persone coinvolte e senza il consenso informato delle popolazioni locali..”.

Pertanto “..

servono meccanismi per la sistemazione, o compensazione retroattiva, di coloro che soffrono gli effetti negativi delle dighe esistenti e per restaurare gli ecosistemi danneggiati.”

Infine:

“…una valutazione periodica partecipata è necessaria per valutare la sicurezza dell’opera e l’eventuale dismissione”.

In tale quadro, viene spontaneo chiedersi se l’idroelettrico sia sempre una giusta scelta allo scopo di decarbonizzare la produzione di energia elettrica.

Secondo la WCD, l’idroelettrico copre circa il 20% della produzione mondiale di energia ed almeno un terzo dei paesi del mondo produce almeno il 50% di energia idroelettrica, con punte sopra il 90% in almeno 20 paesi, ovviamente ricchi di acqua fluente. È certo impensabile sostituire tale metodo di produzione dell’energia. Si osservi inoltre che almeno una grande diga su tre, oltre all’uso idroelettrico consente la gestione dell’irrigazione a scopi agricoli. Tale ultimo fattore da solo copre circa il 70% degli usi delle acque in grandi invasi e rappresenta una necessità difficilmente eludibile.

Per questi motivi, la costruzione di grandi dighe sembra necessaria a chi scrive. Rimangono tuttavia imperative la costruzione di un consenso informato e la gestione atta a minimizzare gli impatti ambientali e sociali. Ove ad esempio gli impianti non servano più o siano divenuti antieconomici, è necessario (provare a) riportare il fiume ed i territori limitrofi alla condizione originale.

Il caso dell’Elwha mostra l’applicazione pratica di tale ultimo principio, che ha richiesto vent’anni di cooperazione tra scienziati, politici e comunità locali, ma che tuttavia promette di restituire il fiume al suo ambiente.

Il docu-film, con un approccio scientifico ed allo stesso tempo poetico, ci mostra in dettaglio gli sforzi epocali necessari per liberare il fiume, la determinazione delle popolazioni locali, ma anche la potenza del legame tra il fiume, arteria vitale e forza motrice della vita dell’ecosistema e dell’uomo e la popolazione, la sua cultura, la sua identità.

 

Testo di: Daniele Bocchiola. Contributi di: Claudio Cassardo, Sylvie Coyaud e Stefano Caserini.

 

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