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Il consumo di carne, i cambiamenti climatici e la salute

Gli allevamenti animali, e il consumo di carne e di altri derivati animali, sono da tempo considerati una fonte importanti di gas serra, e quindi fra le cause dei cambiamenti climatici.
Non è facile attribuire un valore preciso al contributo della produzione della carne alle emissioni totali di gas serra, perché le assunzioni metodologiche possono portare a valori diversi. Si possono infatti considerare diversi passaggi della filiera di produzione (ad esempio anche il trasporto e la conservazione della carne) e molti dati necessari sono spesso incerti.
Gli allevamenti sono associati alle emissioni di anidride carbonica, di protossido d’azoto, di metano prodotto dalla digestione enterica dei ruminanti.  Per essere conteggiate complessivamente in termini di CO2 equivalente si possono usare diversi Global Warming Potential, che possono essere riferiti a diversi orizzonti temporali in cui considerare l’effetto totale climalterante (per convenzione si usa 100 anni ma è, appunto, una convenzione).
Assunzioni estreme su alcuni dati possono portare a stime poco credibili, come quella contenuta nel documentario Cowspiracy, in cui tramite diverse ipotesi molto discutibili si arriva ad attribuire agli allevamenti il 51% delle emissioni globali, addirittura più di quelle dovute ai combustibili fossili. Una stima più realistica fornita dal capitolo 11 del Quinto Rapporto IPCC – WG3 e da interessanti rapporti FAO (Tackling Climate Change Through Livestock, Livestock’s Long Shadow e Livestock – Environment interactions: Issues and options), è pari al 15%, e l’intero settore AFOLU (Agriculture, Forestry, and Other Land Use) secondo l’IPCC contribuisce al 24% delle emissioni climalteranti globali.

 

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Al di là della disputa sui numeri, più utile è un approccio ragionato al rapporto fra i consumi di carne, il cambiamento climatico e in generale i problemi ambientali contemporanei, come nel libro di Marco Ciot Consumare carne. Problematiche ambientali, sociali e di salute”. Il libro è la tesi dell’autore nella laurea magistrale in Sviluppo, Ambiente e Cooperazione all’Università di Torino, ha vinto il premio Laura Conti-ICU 2015 promosso dall’Ecoistituto del Veneto Alex Langer. La produzione di carne su scala industriale è usata come un esempio della connessione fra uomo e ambiente, nel contesto di un sistema di produzione e consumo che sta modificando il Pianeta.
Dal secondo dopoguerra la carne è entrata nella dieta “di massa” in Occidente, grazie al boom economico e alla diffusione di un certo potere d’acquisto presso ampi strati della popolazione. Secondo la FAO, tra il 1970 e il 1990, nel mondo, il consumo di carne è cresciuto del 50%; dagli anni ’90 in poi è rimasto stabile in Occidente, mentre è costantemente aumentato in paesi come Cina e India, grazie all’abbattimento dei costi del prodotto reso possibile da un tipo speciale di allevamento e da sussidi statali all’industria alimentare.
Sono attualmente presenti 25 miliardi di animali da allevamento vivi e si contano circa 70 miliardi di animali macellati all’anno.
Molte persone oggi soffrono di tanta abbondanza. Il consumo eccessivo di carne rossa è accompagnato a un maggior rischio di patologie quali cardiopatie, diabete e alcune tipologie di tumori.
La tecnica indispensabile per soddisfare la domanda di carne globale è l’allevamento intensivo. Gli animali, ammassati a migliaia in enormi capannoni e recinti, non vengono nutriti con l’erba, elemento naturale per la loro crescita, ma con cereali e soia che ne accelerano l’aumento del peso. Per coltivare ingenti quantità di cereali e soia, e occorre fare ampio uso di pesticidi e fertilizzanti con effetti devastanti sugli ecosistemi.
A causa di questa dieta, molti animali ed in particolare i bovini, patiscono gravi problemi di salute e sono tenuti sotto controllo da ingenti quantità di antibiotici.
Gli antibiotici vengono inoltre somministrati per prevenire malattie che si possono sviluppare per le cattive condizioni igieniche degli allevamenti stessi e per accelerare ulteriormente la crescita degli animali. Negli Stati Uniti, il 70% degli antibiotici venduti viene utilizzato a questo scopo.
L’impatto ambientale del commercio globale della carne inizia quindi dalle monocolture di soia e mais che rendono gli ecosistemi meno resilienti e ne distruggono la biodiversità.
Il libro discute come, da consumatori, possiamo modificare i nostri consumi alimentari e fare scelte più giuste per l’ambiente, per la nostra salute e per una più equa ridistribuzione delle risorse. Il consumo di prodotti freschi, non confezionati e di stagione, potrebbe essere uno dei comportamenti da seguire.
Numerosi sono i modi per ridurre il consumo di carne, come mostrato dallo studio Changing Climate, Changing Diets Pathways to Lower Meat Consumption, uno dei quali è prediligere la dieta tipica mediterranea, decretata patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO, ricca in frutta e verdura, rispetto a una dieta ricca di carne e zuccheri.
Ancora, si potrebbe aderire ai GAS, i gruppi di acquisto solidale, che nascono dalla comune volontà di accorciare le distanze fra consumatore e produttore, e si basano sul rapporto diretto fra produttori e acquirenti di prodotti.

 

Testo di Stefano Caserini, Marco Ciot e Sylvie Coyaud, con il contributo di Luca Lombroso

5 responses so far

5 Responses to “Il consumo di carne, i cambiamenti climatici e la salute”

  1. CCCon Lug 12th 2017 at 15:21

    La carne avrebbe senso ecologico solo se venisse da allevamenti con bestiame mantenuto su pascoli montani (rendendo produttive zone che altrimenti non lo sarebbero senza grande impiego di energia). Al contrario la maggior parte degli sforzi agricoli del mondo occiddentale avviene per la produzione di mangimi per il bestiame, NON direttamente cibo per gli umani, per cui in pianura siamo circondati da campi di mais che richiedono molta acqua, fertilizzanti e lavorazioni profonde… con il quale vengono nutriti i bovini da carne (e latte) provocando loro la gastrite perché il loro sistema gastrico è adeguato per la digestione di foraggio non granella di mais e mangimi 😐

  2. Giacinto Melilloon Ago 9th 2017 at 11:59

    Veramente ottimo grazie

  3. Tocquevilleon Ago 16th 2017 at 20:10

    L’industrializzazione dell’agricoltura è stata una delle più gradi conquiste dell’umanità e ha portato benefici incalcolabili. Non fare questa premessa, magari per non sdegnare la combriccola di verdastri fanatici del cupio regredi, rischia di rafforzare il successo di coloro che voi chiamate “negazionisti”. Rafforzando il sospetto, comune a molti, che la battaglia sul climate change non sia solo l’affermazione neutrale di un corpus di conoscenze scientifiche, ma il grimaldello per attuare una agenda politico-ideologica di un certo tipo. Naturale quindi che chi ama la libertà economica e diffida del Leviatano possa nutrire dubbi su campagne che si fondano sulla proclamata necessità di forti regolamentazioni. Comprendere le ragioni del successo di certo negazionismo climatico sarebbe più utile alla vostra causa degli insulti che rivolgete ai vostri avversari. Potreste chiedere a voi stessi se avete fatto sforzi sufficienti per non apparire proni alla contaminazione ideologica o asserviti a poteri e interessi che poco hanno a che fare con la scienza. Governi che voglioni allargare a dismisura il loro potere e il loro controllo sulla società, per esempio. Oppure fazioni politiche che hanno una concezione liberticida e fondamentalistica del rapporto tra uomo e ambiente. In fondo all’animo degli amanti della libertà rimane la convinzione che il desiderio di salvare l’umanità è quasi sempre una falsa facciata per il desiderio di dominare. L’incesto volgare tra scienza e propaganda politica che ha purtroppo caratterizzato l’allarme per il cambiamento climatico ha suscitato inevitabilmente una reazione discutibile, a volte scomposta e grottesca,ma che va compresa e non criminalizzata, se la si vuole superare. Evitare baggianate sulla filiera corta e altre amenità “equo-solidali” sarebbe utile almeno a non infastidire persone come me, tutt’altro che “negazioniste del consensus climatico”, ma di cultura liberale e realista e contraddistinte da una buona conoscenza della teoria economica.

  4. […] poche cose peggiorano il clima come le abitudini alimentari. Il consumo di carne rossa, ad esempio, ha un impatto enorme: secondo le stime di soggetti diversi, gli allevamenti di bovini producono dal 15% al 51% delle […]

  5. Corradoon Dic 7th 2020 at 17:51

    Scrivete “Gli antibiotici vengono inoltre somministrati per prevenire malattie che si possono sviluppare per le cattive condizioni igieniche degli allevamenti stessi e per accelerare ulteriormente la crescita degli animali. Negli Stati Uniti, il 70% degli antibiotici venduti viene utilizzato a questo scopo.”
    Forse ignorate che la pratica dell’uso preventivo degli antibiotici per favorire la crescita degli animali (noto agli addetti ai lavori come “effetto auxinico”) è vietata in Europa da decenni, e che negli stessi decenni le fonti ufficiali europee hanno certificato un (di fatto) dimezzamento dell’uso di antibiotici in Europa, anche grazie alle varie normative sul “benessere animale” …
    Inoltre, sempre gli addetti ai lavori, sanno benissimo che i ruminanti hanno la necessità fisiologica di ricevere almeno il 70% di dieta “fibrosa”, che viene fornita con insilati, cioè erba raccolta a un preciso stadio vegetativo e “prefermentata” in opportune strutture aziendali. Questo permette sia la conservazione per lungo tempo del materiale erbaceo sia il suo arricchimento con precursori delle sostanze utili nel latte, operato da batteri naturali o selezionati e aggiunti in fase di raccolta. Quindi scrivere “non vengono nutriti con l’erba, elemento naturale per la loro crescita, ma con cereali e soia che ne accelerano l’aumento del peso” è una cosa non corretta. Anche nei mangimi per monogastrici onnivori (suini, polli) vengono aggiunte parti di erba (fieno disidratato e macinato di alcune specifiche erbe, coltivate apposta) per arricchire in proteine il mangime.
    Un’altra cosa che omettete di dire è che la maggior parte dei cereali (dal 55 al circa 80%, a seconda degli animali considerati) che finiscono in mangiatoia, in realtà, è costituita da scarti di altre lavorazioni dell’industria agroalimentare: bucce di pomodoro, polpa di barbabietola, scarti dell’industria olearia (ottenuti dalla spremitura dei semi di soia, per esempio, il cui olio è utilizzato anche per fare materassi, oppure di girasole, colza, mais, …).
    La bibliografia da cui ho ricavato quanto affermato è pubblica, presente sui siti istituzionali FAO, UE, ecc. e nei vari testi specifici dedicati alla produzione zootecnica.
    Basta cercare …

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