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Perché la scienza merita la nostra fiducia

Pubblichiamo una recensione di Why Trust Science?, l’ultimo libro di Naomi Oreskes, già autrice di “Mercanti di dubbi”

Perché dovremmo fidarci della scienza? No, non è una domanda trabocchetto. Oggi come non mai questa domanda ricorre ovunque: dai mass media ai social, dalle chiacchiere in famiglia al dibattito politico. Specialmente riguardo a questioni come i cambiamenti climatici, i vaccini, e la più che mai attuale risposta all’emergenza coronavirus, lo scetticismo nei confronti dei risultati e metodi della ricerca scientifica sembra a molti non solo legittimo, ma sacrosanto.  

Nel suo ultimo libro, tratto da una serie di lezioni tenute all’Università di Princeton nel 2016, Naomi Oreskes spiega perché questo presunto dovere di diffidenza verso la scienza sia fondamentalmente sbagliato.

Why Trust Science? È un libro accessibile a un pubblico che va ben oltre i filosofi della scienza e in generale gli accademici con una profonda conoscenza dei casi citati. A prescindere dai singoli esempi, passati e presenti, usati da Oreskes, il messaggio è unitario e diretto: la scienza merita la fiducia dell’intera società perché è essa stessa un prodotto della società, con regole e metodi di controllo aperti e trasparenti.

Fare scienza non vuol dire, secondo Oreskes, essere obiettivi, neutrali, al di sopra delle opinioni, scevri da valori ed interessi personali. Il tipo di conoscenza che la scienza produce non è inconfutabile, non è eterna, e non è garantita in virtù del fatto che risulta dall’applicazione di un unico ed infallibile ‘metodo scientifico’.

Queste false credenze sono precisamente, secondo Oreskes, quelle che nel corso della storia si sono affermate, anche tra gli stessi scienziati, e hanno di conseguenza polarizzato il dibattito rendendo la scienza qualcosa che va o accettata o rifiutata in blocco, in cui si ‘crede’ allo stesso modo in cui chi è religioso crede in un’entità divina che governa il nostro destino e a cui non ci è dato obiettare.

Per difendere ulteriormente questa idea, poi, Oreskes si dedica ad analizzare e rifiutare ad uno ad uno alcuni potenziali contro-esempi. Questi sono casi in cui il sistema-scienza sembrerebbe aver funzionato nel modo corretto, vale a dire assicurando che le voci di legittimo dissenso venissero ascoltate, che la maggioranza si trovasse d’accordo con una conclusione sulla base di una corretta e rigorosa analisi dell’evidenza a disposizione ecc., e ciononostante sono state raggiunte affermazioni false e sdoganate teorie abominevoli (come per esempio l’eugenetica e la ‘teoria della razza’). Per ognuno di questi casi, tuttavia, Oreskes dimostra come in realtà qualcosa sia andato storto, anche se magari l’errore è diventato evidente solo dopo anni o a seguito di approfondite indagini. Di conseguenza, la tesi di Oreskes rimane inconfutata: la scienza è affidabile in virtù del fatto che la comunità scientifica stessa si è data delle regole comuni precise che, quando rispettate, permettono di considerare l’ampio consenso intorno ad una tesi un affidabile indicatore di verità.

Il passo successivo nell’argomentazione di Oreskes riguarda il ruolo di agenti ‘extra-scientifici’ o ‘pseudo-scientifici’ nella diffusione dello scetticismo verso la scienza. Qui, Oreskes riprende un tema già affrontato insieme ad Erik Conway nel libro del 2010 Merchants of Doubt (Mercanti di dubbi, edizione italiana curata da membri dello staff di Climalteranti e pubblicata da Edizioni Ambiente): molti se non tutti i grandi casi di ‘incertezza scientifica’ dell’ultimo secolo sono in realtà opera di personaggi o istituzioni che, perseguendo interessi economici e/o politici personali, ‘fabbricano’ dati e ipotesi contrarie a ciò su cui la maggioranza della comunità scientifica aveva già raggiunto un sostanziale accordo. Se i veri e propri ‘mercanti di dubbi’ spesso lavorano alla luce del sole e, una volta guadagnata un po’ di esperienza, riconoscerli non è molto difficile, altri ‘pericoli’ hanno cause meno esplicite. Superficialità e voglia di ‘fare notizia’ affliggono parecchio giornalismo e divulgazione scientifica, e purtroppo, come nota Oreskes stessa, contribuiscono ad aumentare nel pubblico il senso di incertezza attorno alle questioni scientifiche. A volte, un’opinione minoritaria – magari formata in buona fede, magari invece opera dei ‘mercanti di dubbi’ – viene enfatizzata e pubblicizzata fino a farla apparire come una solida alternativa alla tesi maggioritaria, creando così confusione nel pubblico e dando l’illusione che il dibattito sia molto più aperto di quanto non sia in realtà (come nel caso della comprovata relazione causale tra pillola anticoncezionale e depressione). Altre volte, vengono esagerate ed estremizzate le conclusioni di un certo studio o esperimento che, almeno a un primo sguardo, sembrerebbe contraddire una qualche popolare e stabilita credenza (come nel caso dello ‘scoop’ giornalistico che rivelava l’inutilità del filo interdentale). In questo caso, la confusione ha un effetto emotivamente potente: la destabilizzazione anche della più insignificante delle certezze tende a generare risentimento, insicurezza, rabbia, e paura. Quando portate agli estremi, queste emozioni possono degenerare in paranoia e complottismo: “Se per tutto questo tempo mi hanno mentito sui benefici del filo interdentale, chissà cos’altro di molto più importante mi stanno tenendo nascosto!”.

Questi, dunque, i punti che considero più interessanti del testo di Oreskes:

  • Un primo errore che sia gli scienziati stessi che i media commettono nel parlare di scienza con il grande pubblico è la creazione, a volte involontaria, di aspettative irrealistiche attorno al funzionamento del cosiddetto metodo scientifico in coppia con la retorica sensazionalistica che accompagna qualsiasi presunto fallimento. La scienza è un’attività umana e contingente, e come tale non è in grado di dare certezze assolute. Di conseguenza, dobbiamo imparare a convivere con l’incertezza e a distinguere le sue diverse manifestazioni e il loro significato. ‘Normalizzare’ il ruolo dell’incertezza nella produzione di conoscenza scientifica serve a ‘elaborare’ il dissenso, quando questo emerge, in modo più equilibrato.
  • Un secondo problema è che molto spesso, in caso di reale o percepito dissenso su una questione scientifica, non si presta abbastanza attenzione alle origini e all’effettivo peso statistico di tale dissenso. Mentre è importante vigilare affinché il dissenso legittimo, operante all’interno delle regole del sistema, possa essere liberamente espresso, è anche vero che se tale dissenso rimane minoritario, dev’essere rappresentato come tale.
  • Terzo, non si parla abbastanza di cosa voglia dire ‘fare scienza’ in senso pratico, ovverosia del sistema di regole che bisogna rispettare se si vuole far legittimamente parte della comunità scientifica. L’attività scientifica avviene in luoghi appropriati, all’interno di un sistema organizzato, dove chi partecipa deve aver ricevuto un certo tipo di addestramento e accetta di essere valutato e di valutare a sua volta secondo le regole del sistema.
  • Quarto, l’affidabilità della scienza dipende dal sistema e da come il sistema è in grado di evolversi e perfezionarsi nel tempo, non dal singolo scienziato. I singoli scienziati sono persone, con i loro caratteri, le loro opinioni, i loro valori, i loro interessi e le loro antipatie. Per questo motivo, ci vuole qualcosa che governi tutta questa eterogeneità, senza che sia il singolo scienziato a doversi ‘snaturare’ pretendendo di essere un robot senza idee proprie e senza sentimenti. Questo è il ruolo della peer review da un lato, e l’impegno a preservare diversità, apertura, e trasparenza, dall’altro.

Su quest’ultimo punto, mi permetto di aggiungere una considerazione più personale. L’ossessione per la ‘competenza’ è uno specchietto per le allodole, e non fa che rinforzare il falso mito – discusso anche da Oreskes stessa – dello scienziato come ‘genio’ solitario (solitamente uomo, solitamente bianco, solitamente di famiglia benestante) che fa scoperte in autonomia, magari anche con qualche ‘potere forte’ che tenta di contrastarlo. Oreskes fa notare, invece, che in realtà la ricerca scientifica è estremamente collaborativa, e se alla collaborazione si accompagnano diversità, apertura, e trasparenza, questo rende la scienza degna di fiducia. In Mercanti di Dubbi, Oreskes e Conway fecero notare come le menti principali dietro alla fabbricazione di finta evidenza fossero, tecnicamente, scienziati a pieno titolo. Scienziati che però, avendo preferito denaro e/o ideologia al rispetto delle regole condivise dalla comunità scientifica, di fatto si sono auto-alienati, rendendo il loro titolo di scienziati nulla più di una vacua etichetta.                                                                

Molti lettori avranno notato che praticamente nulla di quello che ho discusso finora riguarda in modo specifico la scienza del clima e i cambiamenti climatici. Questo è dovuto innanzitutto al fatto che Oreskes stessa, in questo libro, preferisce concentrarsi su altri esempi, soprattutto provenienti da biologia, medicina, e sociologia. Inoltre, per quanto riguarda il tema dei cambiamenti climatici, lo scetticismo più diffuso non sembra essere legato alla scienza di per sé, ma più che altro alla connessione tra dati scientifici e decisioni politiche. Mettendo da parte i negazionisti più estremi, i quali contestano la scienza stessa, gran parte del disaccordo intorno ai cambiamenti climatici emerge al livello delle decisioni pratiche e della ‘traduzione’ dei dati scientifici in dati economici da usare come base per proposte legislative. Per questo, la domanda che Oreskes si pone in questo libro è soltanto indirettamente legata alla scienza del clima, e se vogliamo più direttamente legata all’economia e alla politica del clima. Se l’economia è una scienza, e se al centro di tutto c’è sempre l’idea che ogni intervento di lotta al cambiamento climatico antropogenico dev’essere giustificata innanzitutto in termini economici, allora il libro di Oreskes ci offre nuovi spunti per guardare al tema principale di questo blog da questa diversa angolazione: possiamo fidarci delle proiezioni e dei modelli economici sulla base dei quali la politica prende le sue decisioni in merito ai cambiamenti climatici? Possiamo fidarci di chi si occupa della traduzione dei risultati scientifici e della loro interpretazione con l’obiettivo di informare i policy makers? Oreskes non discute il caso, ma invito i lettori a misurarsi con esso nella sezione commenti!

Per concludere, pur avendo le mie riserve su alcune delle conclusioni e delle argomentazioni proposte da Oreskes, ho trovato la lettura di Why Trust Science? stimolante e coinvolgente. Lo stile concreto incentrato sugli esempi rende il libro accessibile e analizzabile criticamente anche da non scienziati. L’originalità della proposta filosofica, poi, che prende una caratteristica della scienza (la sua ‘umanità’) che potrebbe di primo acchito sembrare una debolezza e la trasforma in una forza, porterà sicuramente molti altri filosofi a criticare, difendere, emendare, approfondire: ne trarranno grande beneficio non solo i campi della filosofia della scienza e dell’epistemologia sociale, ma anche la più vasta comunità di coloro che si interessano alla divulgazione scientifica.

Testo di Alessandra Buccella

Informiamo che Giovedì 28 Maggio dalle 17.00 alle 18.30 ci sarà un incontro in diretta streaming sul tema “Disorientare l’opinione pubblica. La scienza e i “mercanti di dubbi”, con un videomessaggio di Naomi Oreskes e l’intervento di Donatella Barus (Fondazione Veronesi), Stefano Caserini (Climalteranti.it) e Federico Pedrocchi (Giornalista).

È possibile collegarsi alla diretta streaming  dalla pagina Facebook di Edizioni Ambiente o a questo link

21 responses so far

21 Responses to “Perché la scienza merita la nostra fiducia”

  1. Armandoon Mag 27th 2020 at 18:30

    Punto primo, sospetto che le cose non stiano come da lei indicato, ovvero che “gran parte del disaccordo intorno ai cambiamenti climatici emerge al livello delle decisioni pratiche e della ‘traduzione’ dei dati scientifici in dati economici da usare come base per proposte legislative.”
    Se digito “global warming” su Amazon ai primissimi posti c’è un testo scritto da un negazionista privo di credenziali scientifiche (è un geologo) che vanta un racing elevatissimo. Conosco parecchie persone che non credono ai cambiare ti climatici e in nessun caso si tratta di persone ignoranti, tutt’altro. Sono semplicemente vittime di un meccanismo complesso da spiegare, ma che in sintesi parte dal rigetto del riduzionismo scientifico estremo. Semplificando, ma per capirsi, da un lato ci sono gli scienziati che fanno ricerca e quindi studiano con molta precisione piccole parti di un sistema; l’insieme di ricerche aiuta poi ad avere un quadro generale, ma con molti se e ma, perché se sono veri e verificabili i singoli dati, il paradigma nel quale si vengono immersi non è di per sé soggetto a verifica.
    Un esempio: nell’essere umano, quanto dipende dai geni e quanto dall’ambiente? E, per complicare le cose, come interagiscono geni e ambiente?
    In un recente articolo, l’economista Dani Rodrik fa un esempio tratto dalla sua disciplina. Un giornalista intervista un economista e gli chiede se il libero commercio è una buona cosa: la risposta è entusiasticamente affermativa. Tempo dopo, lo stesso giornalista assiste assiste a una lezione dell’economista e al termine gli fa la stessa domanda: il libero commercio è una buona cosa? Il professore, questa volta, sbotta: “buono per chi? Se si verifica A i benefici vanno a B, nel caso C invece i vantaggi sono per D. “E” è verificata? E “F”?, e “G”? Insomma, che domande sono queste?”
    Il caso dell’economia non è un’eccezione: fra la pratica scientifica e quello che passa a livello mediatico la differenza è abissale. I media non possono per loro natura andare oltre al sì/no, bianco/nero, bene/male. Cosa doveva rispondere il professore dell’esempio, che il libero commercio è nocivo? Certo, il giornalista avrebbe potuto domandargli: il libero scambio ha effetti distributivi fra i partecipanti, sia fra i paesi che all’interno dei paesi, e sotto quali condizioni si verificano questi effetti? Sì, avrebbe potuto. Ma voi avete mai sentito una domanda del genere?
    La credibilità della scienza è ormai ai minimi storici, non certo per colpa della scienza né degli scienziati. Il punto è che le persone da quando si svegliano a quando vanno a dormire sono bombardati da (pseudo)notizie e (pseudo)informazioni che dovrebbero avere qualcosa di scientifico, ma spesso sono delle semplici raccolte di dati senza nessun serio campionamento.
    Come si fa a distinguere ciò che è fondato scientificamente da ciò che non lo è?
    Non è possibile.
    Due esempi che mi sono capitati personalmente. Tempo fa chiesi a un economista se sapeva dove insegnava un suo collega (so che lavorava all’estero). Volevo mandare alla sua Università una copia di una sua dichiarazione fatta in televisione, con relativa traduzione, chiedendogli come potesse insegnare economia una persona che diceva simili sciocchezze. L’economista mi disse di lasciar perdere; per gli scritti su riviste c’è la revisione dei pari, per tutto il resto, ciascuno è libero di dire quello che gli pare, nessuno può farci niente.
    Ora, si sfottono i terrapiattisti, o quelli che credono nelle scie chimiche, ma chi tira in ballo questi personaggi per dimostrare che la gente è smarrita e non crede più nella scienza, nel 99% dei casi ignora che in materia di economia quasi ogni sera, praticamente ogni giorno, vanno in onda una o più dichiarazioni che hanno la stessa valenza scientifica dell’affermare che la terra sia piatta. Con l’aggravante però che non si tratta di stravaganze, ma di precise posizioni politiche mirate ad ottenere certi risultati, fatte passare per affermazioni/conclusioni/decisioni meramente tecniche, “scientifiche”, si potrebbe dire.
    L’altro esempio mi è capitato una ventina d’anni fa, quando lessi un articolo scritto da uno scienziato italiano (credo che fosse un fisico) sugli Organismi Geneticamente Modificati, raccontava la storia di un determinato prodotto Ogm. Gli chiesi gentilmente dove avesse tratto le informazioni riportate nel suo articolo e lui mi indicò un libro. Lo lessi interamente e gli obiettai che in quel testo non c’era affatto scritto quello che lui aveva raccontato con dovizia di particolari. Anzi, le cose si erano svolte ben diversamente (l’autrice del libro era colei che aveva inventato il prodotto in questione e aveva partecipato in prima persona agli eventi descritti). Si militò ad allargare le braccia. Mi informai allora preso il quotidiano dove era uscito l’intervento chi fosse il garante del lettore e mi risposero che quella funzione era stata soppressa.
    Riguardo all’altro corno da lei indicato, ovvero la traduzione dei dati scientifici in dati economici, anche qui andiamo male.
    Per restare sul pratico, la maggior parte delle persone o crede che l’economia sia una scienza, e si beve tutto quello che i giornali riportano sotto quell’etichetta, o pensa che l’economia abbia la stessa valenza scientifica della letteratura, ma comunque accetta in ogni caso le indicazione che gli economisti suggeriscono perché a qualcosa bisogna pur attaccarsi (come ha magistralmente indicato Taleb, ormai è diventata una prassi usare la mappa dell’aeroporto di Miami per atterrare all’aeroporto di Chicago, perché “è meglio di niente”.)
    La traduzione “economica” che verrà fatta dei dati scientifici non avrà in buona parte nulla a che fare con l’economia e per la restante parte si fonderà su quell’economia che oggi è l’unica considerata ammissibile, cioè l’economia detta neoclassica, nonostante la crisi dei suoi fondamenti a cui è andata incontro negli ultimi anni, e nonostante le diverse scuole di pensiero alternative che vi si contrappongono.

  2. Alessandra Buccellaon Mag 28th 2020 at 16:17

    Armando, grazie del suo commento. Sono d’accordo con tutto quello che dice. In particolare, la questione dello status “scientifico” o meno dell’economia non è abbastanza discusso. Ogni persona che vada in televisione o scriva sui giornali in quanto “economista” (termine vago, tra l’altro: cosa di preciso ha studiato questa persona? è come dire “scienziata” senza specificare se una è una biologa marina o una fisica nucleare) gode di credibilità a prescindere, e la politica sfrutta la situazione per far passare ciò che è frutto di ideologia per verità oggettive.
    Mi piacerebbe approfondire quello che lei dice a proposito del negazionismo basato sull’anti-riduzionismo scientifico: se ha qualche articolo da consigliarmi, lo apprezzerei molto! Io stessa non sono una simpatizzante del riduzionismo scientifico, e mi piacerebbe capire di più su come esattamente quest’idea generale si traduce in scetticismo su singole questioni.

  3. Vittorio Marlettoon Mag 28th 2020 at 17:09

    Ci sono un paio di libri italiani davvero preziosi per comprendere come “funzionano” scienza e scienziati. Entrambi scritti dal compianto storico Federico Di Trocchio si chiamano “Le bugie della scienza” e “Il genio incompreso”. Imperdibili.
    Un eccellente testo che invece aiuta a capire come mai le scoperte allarmanti ci mettono anni se non decenni a trasformarsi in azioni di contrasto efficaci si scarica dal sito dell’Agenzia europea per l’ambiente e si chiama “Late lessons from early warnings”.
    https://www.eea.europa.eu/publications/environmental_issue_report_2001_22

  4. Paolo Gabriellion Mag 31st 2020 at 21:28

    “La scienza è affidabile in virtù del fatto che la comunità scientifica stessa si è data delle regole comuni precise che, quando rispettate, permettono di considerare l’ampio consenso intorno ad una tesi un affidabile indicatore di verità”

    Pero’ mi sembra che la scienza non sia e non debba essere una democrazia. La peer review e’ solo l’inizio della discussione scientifica. La pubblicazione, ma anche un piu’ vasto consenso, non garantiscono che cio’ che e’ scritto sia “scolpito nella roccia” o anche solo affidabile. Cio’ che lo puo’ garantire e’ la ripetibilita’ dell’esperimento/studio nel tempo e la sua congruenza con altre evidenze che possono emergere nel frattempo.

    “La scienza è un’attività umana e contingente, e come tale non è in grado di dare certezze assolute”

    Mi sembra che la scienza non sia in grado di dare certezze assolute, non tanto a causa della nostra fallibilita’/precarieta’ umana ma innanzitutto per le carattersitiche stesse dei sistemi che vengono studiati e che in molti casi hanno una componente caotica. Ad esempio non si possono fare previsioni meteo a 100 giorni…. ma non a causa del fatto che la meteorologia sia un’attivita’ umana…..

  5. Armandoon Giu 1st 2020 at 14:25

    Per Alessandra Buccella Al momento non mi vengono in mente articoli che trattano la questione. Quello che ho scritto si basa su mie impressioni createsi parlando con le persone con cui vengo in contatto. Credo che uno dei canali da cui nasce un certo antiscientismo sia la medicina. Molta gente ha vissuto in prima persona situazioni in cui ha potuto toccare con mano l’incidenza della psiche sul soma. Ora, questa influenza oggi è largamente riconosciuta dalla medicina ufficiale, però è una situazione un po’ a macchia di leopardo; ovvero, quand’ero bambino io, il corpo era pensato esclusivamente come una macchina. Tutto ciò che pertiene a influenze estranee al puro gioco meccanico è stata un’acquisizione lunga, faticosa e su cui comunque non c’è un vero accordo, perché – per tagliar corto – si tratta di una materia troppo complessa e sfuggente per trattarla attraverso i famosi “trial”. Quindi, ci può essere un medico che considera l’atteggiamento del paziente un fattore rilevante, direi fondamentale, e chi invece lo considera un mero epifenomeno. Pensiamo a questo proposito il grande spazio, pratico ma anche nell’immaginario, che hanno acquisito gli psicofarmaci negli ultimi anni, con alcune ardite metafore che si sono spinte a parlare di “pillola della felicità”. Gli effetti e i meccanismi che presiedono a queste sostanze sono molto ambigui, ed essere letti altrettanto bene sia in chiave meccanicista che olistica (almeno credo). Per inquadrare il tema mi piacque molto un libro che lessi anni fa. L’autore è Massimiliano Bucchi e si intitola “Scientisti e antiscientisti. Perché scienza e società non si capiscono.” Già dal titolo si capisce che l’autore afferma che la scienza ha un problema, un problema che non si può liquidare con la supposta ignoranza di coloro che rifiuterebbero certe acquisizioni della scienza date per certe. La confusione regna davvero sovrana. Un esempio è la questione dell’Euro. Se una persona è contro l’Euro viene ipso facto arruolata fra gli anti-vaccinisti, nel caso migliore, se non fra i terrapiattisti. Purtroppo la realtà è che la posizione che le persone hanno sull’Euro è basata sulla pura fiducia verso figure familiari come possono essere non gli esperti, ma i semplici giornalisti ad ampio raggio (ed esempio un Massimo Gramellini) che se sono tranquilli, non pongono problemi sulla questione, allora non c’è motivo di allarmarsi. La mia personale posizione è che io sono contro l’Euro ma semplicemente perché ho studiato. Oggi non esiste al mondo un solo economista con prestigio accademico che sia a favore dell’Euro, è un dato banale, che però sfugge a chi s informa attraverso i mass media e non andando alle fonti dirette. Riguardo ai vaccini, invece, io sono a favore, anche se penso che probabilmente se ne fanno troppi, ma ammetto che non ho studiato la questione, parto dal presupposto di buon senso che a volte il meglio è nemico del bene, e che difficilmente un intervento sul corpo fatto dall’esterno ha SOLO effetti positivi e nessun effetto negativo. Uno potrebbe dirmi che allora sono perfettamente mainstream, cioè sono contro l’euro come sostengono tutti gli economisti importanti (fra cui bel sei premi Nobel) e a favore dei vaccini perché sto dalla parte della medicina scientifica. In realtà, il mio essere a favore dei vaccini è dovuto al fatto che gli antivaccinisti non mi hanno mai posto il problema in modo sfumato, sono sempre saltati subito alle conclusioni e di questo io diffido molto (ma, ripeto, non ho studiato la questione). Nella mia limitata esperienza ho visto il caso della mia nipotina con problemi ai polmoni che si trascinavano da tempo. Quando poi è finita nelle mani di un medico classico, cioè non alternativo, ma con le palle quadrate, i suoi problemi sono finiti. Un medico, vorrei sottolineare, assolutamente ligio al metodo scientifico. Quando gli chiesi se la bambina poteva giovarsi della pratica yoga anziché sfancularmi come aveva fatto la pediatra che l’aveva in cura, ha semplicemente detto che non conosceva ricerche scientifiche sull’argomento.Comunque, per tornare all’argomento di questo blog, non ho mai trovato un negazionista climatico che avesse benché una minima preparazione sull’argomento.

  6. Armandoon Giu 1st 2020 at 15:11

    Per Paolo Gabrielli Quello che lei dice è vero. Però, occhio, che questa difficoltà, che in effetti sussiste, a fare affermazioni assolute, viene utilizzata spesso e volentieri proprio per negare alla base ogni acquisizione scientifica degna di questo nome. Il concetto è: “sì, avete ragione, ma all’atto pratico cosa succede se facciamo come dite voi?” In questo modo qualsiasi insegnamento scientifico viene rigettato, in qualunque campo, senza alcun problema, purché ovviamente chi compie questa operazione possa contare su una comunità di riferimento che condivide la sua visione. Che questa comunità sia ristretta o coinvolga la maggioranza degli individui, non modifica i termini della questione.

  7. Enrico Mariuttion Giu 1st 2020 at 17:45

    Toh, ma che cosa leggono i miei occhi su Climalteranti: “Se l’economia è una scienza, e se al centro di tutto c’è sempre l’idea che ogni intervento di lotta al cambiamento climatico antropogenico dev’essere giustificata innanzitutto in termini economici, allora il libro di Oreskes ci offre nuovi spunti per guardare al tema principale di questo blog da questa diversa angolazione”.

    Io l’ho scritto mesi fa:

    https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2020/02/16/clima-ascoltate-scienziati/

    Appena ho un po’ di tempo ci faccio una bella analisi. E lo dico senza sarcasmo: questa inversione a U, mettere l’economia al centro del dibattito climatico, può trasformare l’ambientalismo da pensiero debole a pensiero forte. Personalmente ne sono entusiasta. Se aveste abbandonato gli atteggiamenti da cricca di illuminati prima, saremmo più vicini a una soluzione.

  8. Armandoon Giu 2nd 2020 at 09:14

    Ma il discorso sul sequestro di CO2 non è stato già affrontato qui? Sono emersi fatti nuovi?
    Riguardo all’energia nucleare, potrei anche essere d’accordo, ma mi pare che uno dei maggiori problemi sia che i privati non vogliono impegnarsi in progetti a lungo termine così rischiosi.
    Quanto all’esempio di Macron, usciamo completamente dal discorso scientifico per entrare nella polemica politica, il che va bene, per carità, ma esula dallo spirito del sito. Infatti, se impoverisci la maggior parte della società, dalle classi basse a quasi tutta la classe media, poi non puoi stupirti se la gente non ti asseconda nella acquisto delle auto elettriche…

  9. Enrico Mariuttion Giu 2nd 2020 at 11:23

    Il punto non è la cattura diretta o il nucleare.
    Il punto è capire che si tratta di una questione politica e che il vero discrimine sono i soldi.
    Perché se è vero che il ceto medio impoverito a cui fa riferimento non ha i mezzi per comprare la macchina elettrica, è altrettanto vero che quando sente parlare di incentivi alla green economy si innervosisce. E come dargli torto: dalla prospettiva di chi ha poco, o addirittura nulla, la decarbonizzazione può tranquillamente apparire un lusso. Se non ho i soldi per farmi un check-up l’anno o per nutrirmi con cibo di qualità e non junk food c’è la possibilità che non muoia a causa del cambiamento climatico ma muoia molto prima di altro.
    Il solare, l’eolico, l’auto elettrica sono strade per la decarbonizzazione che non faranno altro che acuire il problema sociale. Per due motivi.
    1) costano tanto, quindi impatteranno notevolmente sulla spesa pubblica sottraendo necessariamente risorse ad altri capitoli di spesa. E questo è un enorme problema politico, soprattutto in questo momento: come convince l’opinione pubblica a spendere 1 euro in ambiente piuttosto che in sanità?
    2) hanno un “ritorno sociale sull’investimento” (SROI) estremamente limitato, tranne in un pugno di Paesi-fabbrica che producono pannelli, turbine o componenti (Cina, Germania, Taiwan, USA).
    Quindi, saranno sicuramente un ingrediente della decarbonizzazione ma, paradossalmente, sono l’ingrediente più problematico.
    Bisogna trovare altre strade, più social-friendly, da affiancare al percorso “classico”.
    Il fatto che il movimento ambientalista, in cui si ritrovano abitualmente ex militanti di Autonomia Operaia o Lotta Continua, non abbia compreso questo nodo problematico è paradossale.
    Comunque noto con piacere che il tema è esploso, finalmente.
    A me personalmente negli ultimi mesi hanno commissionato due libri su questo argomento.

  10. Armandoon Giu 2nd 2020 at 17:11

    Scusi, ma credo che non abbia colto il punto della mia osservazione. I ceti medio e basso li avete impoveriti voi con le vostre politiche neoliberali. Adesso che avete distrutto la domanda, e quindi avete condannato l’economia a uno stato deflazionario, cercate di ramazzare gli ultimi soldi andando a batter cassa dallo Stato, che quando vi sgancia i dané va sempre bene, ma passata la questua fate finta di non conoscerlo. Credo che lei abbia una sorta di bias storico non indifferente, tirar fuori Avanguardia Operaia oggi è davvero singolare. Comunque, che il capitalismo avrebbe distrutto gli ecosistemi lo disse già Karl Polanyi negli ’40 e ci ha preso in pieno.

  11. Enrico Mariuttion Giu 2nd 2020 at 19:43

    Mi tolga una curiosità: voi chi?
    Io ho 33 anni.
    Mi ricorda quei genitori che, non essendo riusciti a raggiungere gli obbiettivi che desideravano, riversano le ambizioni sui figli.
    Ci avete provato, avete fallito.
    Durante la sua vita, di quanto sono aumentate le emissioni di CO2? Ecco, questa è la misura del vostro fallimento.
    Tante grazie, ora potete anche farvi da parte e far provare chi incarna lo spirito di questo tempo e non quello degli anni ’70.

  12. Armandoon Giu 3rd 2020 at 08:58

    Scusi, avevo equivocato. Dal suo riferimento ad Avanguardia Operaia e a Lotta Continua pensavo che lei avesse una certa età e fosse rimasto con la testa a quegli anni (personaggi così ce ne sono, c’è ad esempio uno che ha scritto un libro per affermare che la causa dell’attuale declino italiano sono state le politiche dell’Iri di quarant’anni fa…).
    Il voi era comunque più ampio, si riferiva a voi del Sole 24 Ore ed era ulteriormente e inequivocabilmente specificato: “voi con le vostre politiche neoliberali (…) avete distrutto la domanda, e quindi avete condannato l’economia a uno stato deflazionario”. Permanente, aggiungerei. Mi sembra piuttosto chiaro. PS. Complimenti per il suo articolo sull’IPCC, ci sono molte cose che non sapevo e che dovrò verificare, comunque molto interessante.

  13. Stefano Caserinion Giu 3rd 2020 at 09:09

    @ Enrico Mariutti

    Vedo che di nuovo scrive che avremmo fatto “inversioni a U”… vabbè, io non ce le vedo, ma libero di pensarla come crede. In ogni caso, il motivo per cui quanto scrive ha poco senso è che non c’è una linea precisa editoriale sui temi della mitigazione o delle politiche economiche. Pubblichiamo contributi di persone diverse, con teste diverse, e quello che facciamo è una peer review interna per garantire che le affermazione fatte siano fondate dal punto di vista scientifico. Sul fatto – ad esempio – di quanto possano essere importanti le tecniche di rimozione di CO2, le assicuro che ci sono posizioni diverse nel comitato scientifico, e vediamo questo come una ricchezza.
    Riguardo alla frase che ha citato, l’aspetto economico è importante quanto quello etico, ambientale, e certo non è l’unico fattore da considerare. Se la legge con attenzione il contesto, la domanda a cui si è arriva è “possiamo fidarci delle proiezioni e dei modelli economici sulla base dei quali la politica prende le sue decisioni in merito ai cambiamenti climatici?”. Su questo c’è stato un grande dibattito in letteratura, che penso si possa riassumere dicendo che è indubbio che le proiezioni climatiche sono molto, molto meno incerte di quelle dei modelli economici. Al di là dei limiti dei modelli integrati nel tener conto della complessità della realtà, il proplema è anche di base, nella scelta del tasso di sconto ad esempio. Su questo le suggerisco il cap. 4 di questo libro di Jamieson https://www.oxfordscholarship.com/view/10.1093/acprof:oso/9780199337668.001.0001/acprof-9780199337668.

    La review effettuata nello SR1.5 IPCC sul rapporto fra politiche sul clima e il raggiungimento degli altri SDG (fra cui riduzione povertà e disuguaglianza) ha mostrato come obiettivi ambiziosi di mitigazione e adattamento facilitano la riduzione della povertà e gli sforzi per ridurre la diseguaglianza. Hanno affidato a questa conclusione una “confidenza alta”, che significa che la grande maggioranza degli esperti di questi temi sono con sicurezza arrivati a conclusioni opposte a quanto da Lei sostenuto.

  14. Enrico Mariuttion Giu 3rd 2020 at 10:35

    @Stefano Caserini

    Beh, ci saranno sensibilità diverse, ma gli ultimi due post in cui si “apre” alla DAC sono un unicum nel blog, almeno a me sembra. Sbaglio? Fino a questo momento l’avevate trattata solo ed esclusivamente come un’opzione da late scenario. Addirittura, rispose proprio lei a un mio articolo dando per scontato un timing intorno alla metà del secolo (in linea con i modelli dell’IPCC). Abbandonare questa prospettiva direi che è un cambio di rotta notevole. Soprattutto dal punto di vista metodologico: magari di questo passo chi propone scenari alternativi per la decarbonizzazione non sarà più bollato come un crumiro, chissà!

    L’IPCC dimostra che mitigazione e adattamento riducono povertà e disuguaglianze in uno scenario del tutto teorico e lontano dalla realtà. Come si può immaginare seriamente (tra scienziati poi!) che ci sia un’unica ricetta che funziona nello stesso modo in Cina, USA, Indonesia e Italia? Non è follia, è semplicemente una scemenza. Qui in Italia, solo per fare un esempio, l’auto elettrica significa fino a un milione di posti di lavoro in meno. In meno, non in più. E se chiedono a me di scriverci un libro è perché questo problema lo sollevano solo i negazionisti, gli altri fanno semplicemente finta di niente. Su Climalteranti non trovo un singolo contenuto che faccia riferimento a questo genere di criticità. Quello della riduzione della povertà e delle disuguaglianze è diventato un mantra che non vi prendete neanche la briga di dimostrare. Sfido chiunque a farmi uno schemino di poche righe che spieghi in che modo la decarbonizzazione (intesa come pannelli, turbine e mobilità elettrica) potrà avere un impatto positivo sull’economia con la maggiore capacità di raffinazione in Europa, con una delle più grandi case automobilistiche “tradizionali” del mondo, con un parco di centrali gas-fired di ultima generazione (e con ancora un paio di decenni di ammortamento davanti), con un tessuto produttivo composto per oltre il 90% da PMI. Spiegatemelo, io purtroppo non sono in grado di capire.

  15. Armandoon Giu 3rd 2020 at 12:05

    Non ho letto il rapporto dell’IPCC, ma immagino che per politiche che contengano le emissioni pensino al mantenere/promuovere le agricolture tradizionali a basso input, esattamente ciò che i liberisti di ogni ordine e grado cercano di cancellare (non sto qui a rifare la storia dei negoziati Wto sul tema e il loro significato). La filosofia di fondo che accomuna tutto l’arco politico è trasportare tante più merci possibili per distanze sempre maggiori. E non parliamo di cose hi-tech ma di granaglie, mele, pere…

  16. Stefano Caserinion Giu 3rd 2020 at 12:58

    @Enrico Mairiutti

    Si, si sbaglia. Abbiamo iniziato ad occuoparci di emissioni negative due anni fa (https://www.climalteranti.it/2018/05/25/laltra-meta-del-lavoro-da-fare/), ma la Direct Air Capture è solo una delle tante opzioni per rimuovere la CO2.
    Non so a quale commento si riferisce, ma da sempre sono convinto che la ricerca sulle emissioni negative deve iniziare ora per essere pronti per metà secolo ad assorbire almeno 5 Gt/anno di CO2, per poter essere a emissioni nette zero (es. lo scenario di Rockstrom et al. 2017 http://www.rescuethatfrog.com/wp-content/uploads/2017/03/Rockstrom-et-al-2017.pdf). Negli scenari anche ambiziosi sulle emissioni negatiove, i nuemri veri iniziano a vedersi a partire dal 2040. Se poi succede prima, tanto meglio.
    In ogni caso, l’errore è ritenerli come alternativi alla decarbonizzazione, e non aggiuntivi. Non sto a ripetere i motivi per cui è molto più conveniente ridurre le emissioni (convenienza non solo economica).
    Non sia poi troppo esigente: sappiamo anche noi che sono tanti gli argomenti che dobbiamo ancora affrontare sulla mitigazione; ma se si legge davvero il rapporto IPCC e le prioncipali fonti che cita, vedrà che trova anche da solo le risposte che cerca.

    @ Armando
    I rapporti IPCC considerano tutte le opzioni per ridurre le emissioni che sono proposte in letteratura, le confrontano in termini di potenziali, costi e benefici diretti e indiretti. E’ una sintesi difficile perchè c’è una quantità enorme di materiale, il rapida evoluzione fra l’altro.

  17. Armandoon Giu 3rd 2020 at 15:37

    @ Stefano Camerini Sarebbe interessante avere un sunto. Quello che mi chiedo è come si fa a fare previsioni quando alcuni dati restano di fatto imprevedibili, ovvero la crescita economica e il tipo di crescita in questione. Voglio dire, l’idea che hanno i propagandisti della globalizzazione non è certo quella di mettere in comune le conoscenze e cooperare fra comunità. E’ la massimizzazione del ritorno sul capitale, a qualsiasi costo, e questo presuppone la distruzione di tutto ciò che si frappone, a cominciare dalle comunità custodi dell’ambiente, che ovunque nel mondo sono sotto pressione. L’idea è, anzi, era, confinare i paesi poveri nelle catene di sub produzione e dargli in più il contentino di importare i loro prodotti agricoli. Di questo si parlava una ventina d’anni fa quando le conferenze ministeriali della Wto avevano le prime pagine dei giornali. Poi l’ingresso della Cina ha cambiato le carte in tavola: non c’è stato più bisogno di appaltare ai paesi invia di sviluppo la parte bassa della produzione, ci ha pensato la Cina, con la differenza che ha curato anche la parte alta, ed è diventata una vera potenza economica, con tutto ciò che comporta a livello di conflitto con gli Stati Uniti. In ogni caso, il modello che hanno in mente tutti, e con tutti intendo TUTTI, destra, sinistra e alcuni penosi personaggi che a suo tempo sono saliti sul carro no-global, è la massimizzazione degli scambi a qualsiasi livello. Aspettatevi di trovare sempre più spesso prodotti agricoli in contro-stagione che hanno viaggiato migliaia e migliaia di chilometri, uno spreco immane. Tutto questo can can che si fa sull’auto elettrica, per esempio, è pura propaganda filotedesca. Ovvio che la maggior parte dei giornali la sponsorizzi. Come la Germania, grazie all’euro, è riuscita a finanziarsi negli anni a costo zero sui mercati, così riuscirà ad approfittare della crisi del covid per farsi pagare la transizione tecnologica dai paesi del sud Europa. Non c’è nessun intento ecologista dietro, solo il vecchio, ottocentesco mercantilismo. Solo che un tempo dovevi imporlo con i cannoni, adesso ti bastano i giornali e i partiti venduti.

  18. Enrico Mariuttion Giu 4th 2020 at 02:46

    @Stefano Caserini
    Perché mi mette sempre in bocca quello che non ho detto?
    Non ho scritto che non vi siete mai occupati di NETs, ho scritto che negli ultimi due post avete “aperto” alla cattura diretta.
    Stabilire un nesso causale tra ritardo nella decarbonizzazione e NETs è esattamente quello che ho sempre cercato di fare io quando ho parlato dell’argomento. Ed è una posizone completamente diversa da quella dell’IPCC, che fa riferimento al “moral hazard” delle NETs e della geoingegneria.
    Oltretutto, non ho mai descritto le NETs come opzioni alternative alla decarbonizzazione ma complementari. Semplicemente, si tratta di una questione di misura: lei dice 15% delle emissioni tagliate con NETs (quindi agricoltura e allevamento), io invece vedo più realistico lo scenario immaginato da Wadhams, 50% delle emissioni tagliate con NETs. E’ una prospettiva completamente diversa: io sono convinto che le auto a combustione e le centrali termoelettriche convivranno per lungo tempo con gli impianti NFER e le auto elettriche, lei no.
    Non raccolgo la provocazione circa il “leggere davvero” i rapporti dell’IPCC ma le faccio sommessamente notare che il sacerdote che custodisce i testi sacri della Scienza con questa pandemia è passato di moda.
    Noto, invece, che non ha minimamente risposto alla seconda parte del mio intervento, e cioè in che modo il “modello classico” (IPCC) ridurrebbe povertà e disuguaglianze in Italia.

  19. Armandoon Giu 4th 2020 at 09:15

    “io sono convinto che le auto a combustione e le centrali termoelettriche convivranno per lungo tempo con gli impianti NFER e le auto elettriche, lei no.”
    Poco ma sicuro.
    Un tempo gli Stati avevano la possibilità di fare grandi investimenti. Per come funzionava l’economia fino alla fine degli anni ’70 qualsiasi scenario tecnicamente fattibile poteva essere tranquillamente, passo dopo passo, realizzato. Oggi gli Stati non hanno più questo potere. In un’economia neoliberale le decisioni le prende il mercato, cioè i privati. Andate a vedere l’incremento del debito pubblico rispetto al Pil di paesi come Stati Uniti, Irlanda, Spagna, Grecia dopo la crisi del 2008. E’ andato tutto a coprire i “non performing loans”, a evitare che il contagio si propagasse ad aziende ancora sane e nei meccanismi automatici di stabilizzazione (fra cui i sussidi di disoccupazione) negli Stati Uniti, in restituzione dei prestiti contratti con le banche tedesche e francesi in Spagna e in Grecia. Adesso, con la crisi del Covid, le Banche Centrali dovranno aumentare ulteriormente i loro bilanci, con effetti difficili da prevedere.
    Su segnalazioni trovate qui ho scaricato alcuni rapporti che delineano la transizione verso fonti rinnovabili. Ma ad di là della notevole difficoltà (bisogna impadronirsi di un linguaggio per me nuovo) mi sembrano cose a cui si può seriamente pensare in un contesto del tutto diverso dall’attuale.
    I gilet jaunes non sono un simpatico fenomeno di folklore. Sono la materializzazione di un cambiamento di fondo: gli Stati non rappresentano più l’insieme degli individui che costituiscono una nazione, ma gli interessi di una piccola minoranza.
    L’auto elettrica sarà uno degli status symbol che la nuova classe al potere esibirà nei prossimi anni. Non esattamente quello che si aspettava chi auspicava una svolta ambientalista.

  20. Stefano Caserinion Giu 4th 2020 at 09:39

    @ Enrico Mariutti
    Non mi pare di aver scritto niente di specifico sulla cattura diretta, ma va bene così, se anche Lei ritiene che le NETs non sono alternative ma complementari ad una drastica decarbonizzazione, siamo a posto.
    Per il resto, l’IPCC non ha un suo modello, si limita a fare una rassegna e sintesi di quanto è pubblicato in letteratura; come tutte le sintesi è opinabile, ma sono secondo me più interessanti di singole opinioni.

    @ Armando
    Eh.. sintetizzare non è facile.
    Trova qui https://www.sisclima.it/wall/rapporto-ipcc-riscaldamento-globale-di-15c-sommario-per-i-decisori-politici-edizione-italiana/ la versione italiana del Sommario per i decisori politici del SR1.5 IPCC, parte D (5 pagine), qui https://www.ipcc.ch/sr15/chapter/chapter-5/ il relativo capitolo (70 pagine)

  21. Armandoon Giu 5th 2020 at 09:50

    Molto interessante, grazie.
    Nella versione italiana si dice che “le emissioni di CO2 generate dall’industria nelle proiezioni degli andamenti che limitano il riscaldamento globale a 1,5°C con un superamento nullo o limitato sono del 75–90% (intervallo interquartile) inferiori nel 2050 rispetto al 2010 (…)”
    Poco più sopra si diceva che “Queste transizioni nei sistemi non hanno precedenti in termini di scala, ma non necessariamente in termini di velocità…” ma il punto è che se “Tali riduzioni possono essere realizzate mediante combinazioni di tecnologie e pratiche nuove ed esistenti,”
    comunque “il loro dispiegamento su larga scala può essere ostacolato dalla disponibilità economica, finanziaria, umana e da limitazioni istituzionali (…)”.
    Ora, se uno da uno sguardo al mondo come è oggi vede tre superpotenze disposte a tutto tranne che a cooperare, più un’area a conflittualità endemica che sarebbe l’Europa, ormai incanalata in una deriva autoritaria.
    Il discorso della transizione come viene prospettato qui poteva avere senso quarant’anni fa quando esistevano ancora gli Stati, non oggi dove ad agire è il privato e lo Stato è l’organismo chiamato a ripianare le perdite generate dalle varie bolle finanziarie innescate col debito privato.
    La storia dell’auto elettrica di cui si parla con molta competenza in diversi siti è semplicemente un modo per far passare aiuti di Stato all’industria tedesca, la questione climatica è solo uno specchietto per le allodole.

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