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La COP di Varsavia e lo scoglio dell’equità

La Conferenza delle Parti (COP) della convenzione ONU sui cambiamenti climatici, in corso da 10 giorni a Varsavia, rappresenta un altro appuntamento importante nel lungo e faticoso cammino verso un nuovo accordo sulla riduzione delle emissioni di gas climalteranti.
La Conferenza è ancora in corso e il dibattito è ancora aperto sui temi principali delle negoziazioni, che possono essere  riassunti nei seguenti:

  •  – impegni di riduzione per il periodo 2013-2020;
  •  – procedura per definire gli impegni nel periodo 2020-2050;
  • – azioni per l’adattamento;
  • – loss and damage;
  • – impegni finanziari (per mitigazione, adattamento e danni residui).

Come già detto in precedenti post, il negoziato è ampio e complesso, con davvero tanti aspetti trattati in tanti diversi tavoli negoziali.
Per ora i mezzi di informazione hanno seguito poco quanto succede alla COP19 , se si eccettua il drammatico  intervento del capo della delegazione filippina, Yeb Sano, che ha annunciato lo sciopero della fame in solidarietà con i suoi familiari colpiti dal super tifone Haiyan.
Grazie all’ottimo servizio di Webcast dell’UNFCCC, è possibile anche per chi sta a casa seguire in diretta la discussione delle plenarie e di molte altre riunioni, nonché le conferenze stampa (in diretta o in differita).
In un prossimo post riassumeremo come di consueto gli esisti della Conferenza. Per ora va detto che uno dei temi centrali di questa Cop è senza dubbio quello dell’equità; non è un tema nuovo, ma ora è chiaro che condizionerà lo sviluppo del prossimo anno di negoziati.

***

Come noto, l’art. 3 (I Principi) della convenzione sul Clima recita che “le Parti devono proteggere il sistema climatico a beneficio della presente e delle future generazioni, su una base di equità e in rapporto alle loro comuni ma differenziate responsabilità e alle rispettive capacità”.
Il punto quindi è: come definire l’equità? Come definire le rispettive responsabilità nell’aver causato il problema e capacità nel risolverlo?
Nel corso degli anni c’è stata un’ampia produzione scientifica che ha cercato di aiutare ad affrontare questa domande; la decisione su cosa è non è equo non può che essere politica, ossia sottende un giudizio di merito, di valore; ma la scienza può aiutare a discutere, a ragionare facendo riferimento a numeri, ad indicatori relativi alle emissioni (annue, pro-capite, cumulate, ecc), alla ricchezza (reddito, PIL, potere d’acquisto), allo sviluppo energetico e tecnologico (diffusione dell’energia elettrica, intensità carbonica dell’energia, ecc.).
Il primo protocollo sul clima, nel 1997, il Protocollo di Kyoto, aveva risolto la questione dell’equità in modo abbastanza semplice, attribuendo impegni solo ai paesi più industrializzati (riportati in un allegato del Protocollo e per questo chiamati  paesi “Annex I”).
Da allora le cose sono cambiate e le differenze fra i paesi Annex I e gli altri si sono fatte più sfumate: i paesi in via di sviluppo orami emettono circa il 60% delle emissioni di gas serra. Cina, Corea del Sud, Brasile, India o Sud Africa sono ormai potenze economiche e industriali, il cui contributo per raggiungere obiettivi ambiziosi di riduzione delle emissioni è essenziale.
È però vero che le emissioni pro-capite di gas serra (in termini di CO2eq) nel 2010  [1] dell’India (circa 2 t/anno) o del Messico (circa 6 t/anno) sono molto inferiori a quelle europee (circa 10 t/anno) o statunitensi (circa 22 t/anno). E Cina o Brasile che hanno emissioni pro-capite più elevate (rispettivamente 7.5 e 10.6 t/procapite) chiedono da tempo di valutare non solo l’attuale fotografia delle emissioni, ma le emissioni cumulate negli scorsi anni, chiedono di valutare una “responsabilità storica”. Ma anche questo potrebbe essere discutibile, visto che 100 anni fa non erano chiarissime come oggi le conseguenze per il clima del pianeta dell’uso dei combustibili fossili.
Non esiste una sola declinazione del principio di equità, ma è sicuro che gli impegni non possono essere gli stessi, e si crea quindi la necessità di decidere quali impegni sia giusti.
In seguito alla Conferenza di Copenhagen più di 100 paesi (sia Annex I che non-Annex I) rappresentanti più dell’80 % delle emissioni di

CO2 globali e più del 90% del PIL mondiale hanno messo sul tavolo delle loro offerte (chiamate “pledges”): riduzione delle emissioni assolute per molti paesi (EU o USA), riduzione delle  emissioni per unità di PIL per altri paesi (Cina e India).

Il problema è che queste offerte volontarie non sono sufficienti, corrispondono a livelli di emissioni globali che porterebbero la temperatura globale a circa 3,3°C, come indicano le analisi del Climate Action Tracker.
È necessario “chiudere il divario delle emissioni” che ci separa dall’obiettivo dei 2°C, come ha mostrato in modo efficace un recente rapporto dell’UNEP presentato proprio in un affollato side event alla COP19.
C’è quindi bisogno di fare di più, di “alzare il livello di ambizione”, come si dice nel linguaggio delle COP.
Il punto è che nessuno ha voglia di fare la prima mossa, anche perché alcuni paesi (Giappone e Canada) hanno addirittura deciso di ridurre i loro impegni volontari rispetto a quanto annunciato a Copenhagen. Si rischia di trascinare il dibattito a lungo.

***

In questo contesto è chiara l’importanza della procedura e degli indicatori in discussione a Varsavia. Se ne è parlato in molti dei side event (le conferenze scientifiche che affiancano le negoziazioni nelle COP), ne ha parlato uno dei rappresentanti della delegazione europea Jurgen Lefevere, nella conferenza stampa di venerdi’ 15 (dal minuto 5 al 6), e il capo della delegazione USA Todd Stern nella conferenza stampa di mercoledì 20 (dal minuto 22 al minuto 24).
Quella che potrebbe essere una soluzione è ad esempio un processo di “offerte e revisioni” illustrato da  questa proposta pubblicata dall’Institute for Sustainable Development and International Relations di Parigi, Possible Elements of a 2015 Legal Agreement on Climate Change.
In sintesi, la procedura proposta prevede che:
1) ci si accorda su un obiettivo globale ambizioso ma fattibile (ad esempio, questo studio ritiene che emissioni zero nel 2050 lo sia).
2) i singoli paesi avanzino nuove offerte di impegni individuali, indicando come le ritengono in linea con l’obiettivo globale e in base a quale principio di equità ritengono l’impegno del proprio paese una proposta equa.
3) le singole proposte sono valutate e discusse da  un comitato indipendente, che le confronta e verifica come ogni paese interpreta il principio di equità
4) sulla base dei commenti dei revisori, i paesi possono modificare le proprie offerte di impegni.

La sostanza della proposta è quindi che i singoli paesi si assumano la responsabilità di discutere cosa per loro è equo, e in linea con l’obiettivo globale (evitare l’interferenza antropogenica dannosa col clima del pianeta oppure limitare l’aumento della temperatura globale a non più di2°C) che tutti hanno già sottoscritto (rispettivamente con la convenzione UNFCCC e con gli accordi di Cancun).
Ci sono poi tante sfaccettature, ad esempio la possibilità di usare più indicatori o i finanziamenti da render disponibili ai paesi più poveri, ma la sostanza è il tentativo di tradurre in termini quantitativi un dibattito sull’equità che si sta facendo più o meno esplicitamente ormai da troppo tempo.
Per evitare che una diversa interpretazione del principio di equità non sia per tutti una scusa per non agire seriamente contro il cambiamento climatico.

 

[1] Per le emissioni di tutti i paesi si vedano i dati del WRI-CAIT, sono state qui considerate le emissioni totali di CO2eq nel 2010, incluse le emissioni da attività LULUCF (variazioni usi del suolo e delle foreste). Dati più recenti sulle emissioni di CO2 sono disponibili nel Global Carbon Budget, e sono scaricabili dal sito del CDIAC.

 

 

Testo di Stefano Caserini, con il contributo di Sergio Castellari

14 responses so far

14 Responses to “La COP di Varsavia e lo scoglio dell’equità”

  1. Riccardo Reitanoon Nov 21st 2013 at 18:43

    “i mezzi di informazione hanno seguito poco quanto succede alla COP19”
    forse a causa del sostanziale stallo? Sarebbe più o meno la stessa ragione per la quale le organizzazioni non governative hanno abbandonato la conferenza.

  2. Paolo Gabriellion Nov 22nd 2013 at 02:05

    Il titolo del post dice quasi tutto: l’equita’ e’ diventata uno scoglio, un ostacolo, una difficolta’ da superare. Quasi nessuno nega ormai il problema mentre quasi tutti negano l’urgenza. Ma c’e’ da scommettere che quando verra’ riconosciuta anche l’urgenza tutti gli organismi burocratizzati messi in campo per contrastare i cambiamenti climatici verranno di colpo messi da parte da riunioni di urgenza dei vari G8-G20 dove (al contrario delle COP) presenzia chi, nel bene e nel male, sta nelle stanze dei bottoni. E allora addio equita’….

  3. alessandrobarbolinion Nov 24th 2013 at 23:01

    ma per carita!! ancora credete a questa farsa??? sono anni che questi 4 mentecatti girano il mondo per ridurre i gas serra ….e avete notato qualcosa? io vedo tanti tir auto ecc ecc che non vanno con la cacca ma con il petrolio…e poi su….i ghiacciai si stanno estendendo sempre piu……il GW è la piu grossa bufala scientifico politico -mediatica lo sa pure il gatto della vicina di casa mia..

  4. Salvatoreon Nov 25th 2013 at 16:57

    alessandro, spero solo che tu stia scherzando!!!

  5. Carlettoon Nov 25th 2013 at 17:44

    Alessandro non fai ridere..siamo seri su’..
    tra l’altro io sto su un paese alpino e i ghiacciai sono sempre peggio nonostante i teloni che li proteggono in estate..

  6. Valentinoon Nov 25th 2013 at 19:27

    A proposito di Hayian, guardate che differenza tra l’edizione italiana, citata nel testo, e quella inglese: http://en.wikipedia.org/wiki/Typhoon_Haiyan
    Typhoon Haiyan, known as Typhoon Yolanda in the Philippines, was an exceptionally powerful typhoon that devastated portions of southeast Asia; particularly the Philippines in early November 2013. It is the deadliest Philippine typhoon on record,[1] killing at least 5,235 people in that country alone.[2] Haiyan is also the strongest storm recorded at landfall, and unofficially the fourth strongest typhoon ever recorded in terms of wind speed.[3]

    Il tifone Haiyan (dal mandarino: 海燕 hǎi yàn, procellaria, uccello delle tempeste, letteralmente rondine di mare) del novembre 2013, conosciuto nelle Filippine come tifone Yolanda, è uno dei più forti cicloni tropicali mai registrati.

    Edizione inglese riporta la connessione ai cambiamenti climatici, quella italiana no.
    Come siamo provinciali e struzzi!
    Non sapremmo riconoscere un elefante fino a che non ci è arrivato addosso.

  7. Valentinoon Nov 25th 2013 at 19:31

    The United Nations meteorological agency has found the effects of climate change are making the impact of severe storms like Typhoon Haiyan worse.

    The World Meteorological Organisation’s Michel Jarraud says Australia’s record-breaking summer helped push average global temperatures higher this year, and rising sea levels worsened the situation in the Philippines.

    “The impact of this cyclone was definitely significantly more than what it would have been 100 years ago because of the simple mechanical fact that the sea level is higher,” Mr Jarraud said.

    “Storm surges have a much more devastating effect than they would have had decades ago.

    “The same typhoon 50 years ago would have had less impact because the sea level was lower.”

  8. alex1on Nov 25th 2013 at 21:25

    Non si vedeva un tifone così da circa 50 anni ed è stato un caso altrettanto raro che il tifone Haiyan sia ”atterrato” in una zona densamente popolata: sono queste le caratteristiche che hanno creato un evento straordinario e tremendo, che ha causato almeno 1.200 morti.

    ”E’ un tifone di categoria 5, un evento portentoso della natura”, osserva Alfonso Sutera, del dipartimento di Fisica dell’università Sapienza di Roma. ”Tifoni altrettanto intensi si sono formati negli ultimi anni, ma non hanno toccato terra”, aggiunge. ”In questo caso, invece, si è abbattuto su una regione densamente popolata. Eventi come questo costituiscono un’eccezione a causa dei lunghi intervalli di tempo nei quali si verificano”, aggiunge l’esperto. ”L’ultimo tifone confrontabile per intensità che è riuscito a toccare terra – prosegue – risale alla metà degli anni ’60 ed è avvenuto all’incirca nella stessa zona”. E’ nel Pacifico che nascono i tifoni, mentre gli uragani sono i fenomeni equivalenti che hanno origine nell’Oceano Atlantico. ”I primi sono più numerosi e più intesi – spiega Sutera – perché il Pacifico è più caldo dell’Atlantico”.

    I tifoni si formano per il calore liberato nella zona del Pacifico più vicina all’Equatore: l’acqua che evapora dalla superficie degli oceani si condensa formando nubi temporaleschi. Al centro si crea una zona di bassa pressione, accompagnata da venti molto forti e temporali altrettanto violenti, con una configurazione a spirale. Una volta formati, i tifoni si spostano da Est verso Ovest. Può accadere che il loro ‘cammino’ venga interrotto da fenomeni atmosferici, come venti che soffiano nella direzione opposta. Questo possono ”catturare” il tifone e portalo via, fino ad allontanarlo dalla sorgente che gli dà energia ossia il calore dell’oceano.

    Se invece non incontrano ostacoli, come è accaduto nel caso del tifone Haiyan, i tifoni continuano nel loro cammino fino a trovare terra, dove dissipano tutta la loro energia. Una volta ”atterrati”, prosegue l’esperto, i tifoni possono provocare ulteriori fenomeni. Primo fra tutti è il forte vento che, soffiando sul mare, solleva masse d’acqua verso le coste. ”La mortalità causata da eventi come questo – conclude Sutera – non è legata alla potenza dell’evento, ma è legata alle condizioni economiche del Paese colpito”.

    http://www.ansa.it/scienza/notizie/rubriche/terrapoli/2013/11/09/quasi-50-anni-si-vedeva-tifone-come-Haiyan-_9594204.html

    traete un pò voi le conclusioni…

  9. alex1on Nov 25th 2013 at 21:30

    carletto@

    un ghiacciaio che si ritira non indica matematicamente un aumento di temperatura.. può anche fare molto freddo, ma se cade poca neve il ghiacciaio di ritira comunque..

  10. alessandrobarbolinion Nov 25th 2013 at 22:34

    lasciamo perdere…sto scrivendo su un blog di stampo SERRISTA…non capireste mai…..

  11. Salvatoreon Gen 15th 2014 at 16:50

    caro alessandro, noi non siamo di “stampo serrista” (che brutta parola!) come dici tu, ma guardiamo quello che in realtà sta accadendo e i modelli climatici confermano… al massimo, sei tu che sei fissato su altre supposizioni, i fatti caro mio non ti supportano… continua a immettere CO2 nell’atmosfera e vedrai tra un po’ come arrostiremo tutti quanti!!!

  12. […] L’equità dell’accordo, sia tra le nazioni contraenti che all’interno delle nazioni tra le fasce socio-economiche, permette azioni più concrete ed efficaci, senza rimanere lettera morta. “L’evidenza dimostra che risultati negoziali considerati equi possono condurre a una cooperazione pù efficace”. Sarebbe quindi necessario utilizzare modelli che attribuiscano un valore differente ai benefici (e ai costi) sostenuti da individui diversi. Ma “tale ‘pesatura distributiva’ è raramente inserita nei modelli economici utilizzati per le pubblicazioni”. Vi è quindi un gap molto preciso in questo senso (il lettore interessato veda per questo pag. 4 della Sintesi). […]

  13. […] come i precedenti, senza un chiaro accordo sugli impegni (anche volontari) di riduzione o almeno su una procedura per definirli, le possibilità di siglare un nuovo trattato a Parigi sarebbero esigue. Nelle intenzioni del […]

  14. […] pre-2020 e di lungo periodo, nonché il meccanismo per valutare la loro adeguatezza in base a principi di equità. Integrare il concetto di equità nell’accordo è senz’altro difficile; da una parte i paesi […]

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