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Archive for the 'Fenomenologia' Category

Quando il negazionista climatico sbaglia i conti sull’effetto serra

Come sanno i lettori di Climalteranti, Franco Battaglia è uno dei negazionisti climatici italiani più ostinati e prolifici. Raggiunta la pensione, dopo una  produzione scientifica inesistente per quanto riguarda i temi del clima e dell’ambiente, ora scrive per La Verità e il blog del giornalista Nicola Porro. Per lo più intervista altri negazionisti climatici nazionali e internazionali, ripete le stesse tesi infondate sul clima, quasi sempre ridotte a discorsi da bar. Da tempo Climalteranti ha deciso di ignorare questo chiacchiericcio, che si rivolge solo a qualche migliaio di adepti, alcuni dei quali commentano entusiasti sul blog o sui social.

Nel testo pubblicato su blog di Porro il 12 gennaio 2023 “Effetto serra, tutti gli errori dell’Ipcc”, Battaglia ha invece scelto un approccio all’apparenza più scientifico, avventurandosi in una spiegazione di fenomeni fisici, usando 8 equazioni. Per chi si occupa di clima e fisica dell’atmosfera, l’articolo a dir poco si può definire imbarazzante. La tesi sarebbe che tutti i climatologi del mondo non conoscono la fisica di base del funzionamento del sistema climatico, e commettono errori da pivelli.

In estrema sintesi, Battaglia cerca di calcolare la sensibilità climatica dovuta alla CO2, cioè di quanto si innalzerebbe la temperatura dell’atmosfera se la CO2 presente nell’aria raddoppiasse. Per farlo utilizza un modello estremamente semplificato del sistema Terra, composto da una sola equazione (utilizzata in modo errato), da cui ricava che la sensibilità climatica sarebbe di soli 0,7 gradi, molto lontano da 3°C e 2,5-4°C indicati rispettivamente come miglior stima e intervallo probabile dall’IPCC AR6 WGI. Quindi analizza la possibilità che questa discrepanza sia dovuta ad una variazione dell’albedo (la frazione di luce riflessa dalla Terra), e giustamente lo esclude. Infine, esamina la spiegazione fornita dai climatologi, cioè che esistono dei fenomeni (feedback positivi) che amplificano il riscaldamento, di qualsiasi natura sia, Continue Reading »

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Emissioni nette zero / non zero

Il concetto di emissioni “nette zero” è spesso criticato perché potrebbe facilitare il posticipare le azioni di riduzione delle emissioni di gas serra. In realtà, come spiegato nel post di Gavin Schmidt su Realclimate, di cui pubblichiamo la traduzione, si tratta di un concetto utile, e solido dal punto di vista scientifico soprattutto se riferito a emissioni nette zero di CO2 e non al totale dei gas serra.

 

 

Alla Conferenza COP26 di Glasgow, gran parte della discussione ha riguardato gli obiettivi noti come “emissioni nette zero”. Questo concetto deriva da importanti risultati della fisica già evidenziati nel Rapporto Speciale su 1,5 ºC di riscaldamento globale, e approfonditi nell’ultimo rapporto IPCC: mostrano che il riscaldamento futuro è legato alle emissioni future e che cesserà effettivamente solo dopo che le emissioni antropogeniche di CO2 saranno bilanciate dalle rimozioni antropogeniche di CO2. Ma alcuni attivisti hanno (giustamente) sottolineato che le rimozioni di CO2 a grande scala non sono ancora state testate, e quindi fare affidamento su di esse in misura significativa per bilanciare le emissioni è come non impegnarsi affatto ad arrivare a emissioni nette zero. Il loro punto è che “emissioni nette zero” non equivale a “emissioni zero” e quindi potrebbero avere l’effetto di una cortina fumogena per un’azione climatica insufficiente. Per aiutare a risolvere questo problema potrebbero essere utili un po’ di basi scientifiche.

 

 

“Emissioni nette zero di CO2” ha un reale significato geofisico

 

Con dati empirici e modelli migliori e più numerosi è diventato chiaro che, in prima approssimazione, l’eventuale riscaldamento antropico da biossido di carbonio è legato alle sue emissioni cumulative. Questa figura è tratta dal Sommario per i decisori politici del Sesto Rapporto IPCC (AR6-SPM, traduzione italiana a cura di Climalteranti, ndt):

Rapporto tra emissioni cumulative di CO2 e temperatura (SPM AR6).

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Il sesto rapporto IPCC

È in corso di svolgimento a Ginevra il meeting IPCC che si concluderà il 9 agosto con il rilascio del 6° Rapporto del Primo Gruppo di lavoro, sulle basi fisiche del cambiamento climatico (Climate Change 2021: the Physical Science Basis).

Si tratta di un documento scientifico di grande interesse, perché riassume le conoscenze scientifiche sulla fenomenologia del problema, ad esempio sui dati che mostrano l’inequivocabile surriscaldamento globale in corso, i diversi modi in cui emerge in modo chiaro l’influenza delle attività umane, le proiezioni future a livello globale e regionale.

Il rapporto è diviso in 12 capitoli: 

1: Framing, context, methods

2: Changing state of the climate system

3: Human influence on the climate system

4: Future global climate: scenario-based projections and near-term information

5: Global carbon and other biogeochemical cycles and feedbacks

6: Short-lived climate forcers

7: The Earth’s energy budget, climate feedbacks, and climate sensitivity

8: Water cycle changes Continue Reading »

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Aerosol, la “materia oscura” del sistema climatico

Se stessimo a sentire solo i media, più o meno social, sembrerebbe che il dibattito climatico sia ancora fermo a problematiche, come la causa del riscaldamento globale, risolte invece da almeno 30 anni, individuando nelle emissioni antropiche di CO2 la ragione largamente preponderante. Tuttavia, se solo coloro che negano ancora questa evidenza si informassero un poco di più, potrebbero trovare un sacco di materiale forse più interessante e realmente legato a dibattiti scientifici in corso. È il caso dell’ aerosol, una sorta di “materia oscura”, ancora sfuggente, nel sistema climatico.

 

Sono ormai decenni che le Nazioni Unite, attraverso l’IPCC, presentano una tabella (Fig. 1) in cui il contributo energetico (la cosiddetta “forzante radiativa”) dell’aerosol atmosferico al riscaldamento globale continua ad essere presentato con un livello di incertezza molto ampio. Certo, questo non può togliere ai gas climalteranti il primato nel modificare il clima del pianeta, ma è sufficiente a causare deviazioni, anche consistenti, nel trend generale (come ad esempio la pausa del riscaldamento globale negli anni ‘60-70) e, cosa interessante, forse anche nel brevissimo periodo (2010-2014).

Figura 1: Tabella dell’ultimo rapporto dell’IPCC nel 2013 con i contributi energetici delle varie componenti che influenzano il sistema climatico. L’ampia barra di incertezza legata agli aerosol è rimasta sostanzialmente invariata a partire dalla prima presentazione di questa tabella nel rapporto IPCC del 1995. Continue Reading »

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Quanto a lungo rimane la CO2 in atmosfera?

Per comprendere quanto la questione del surriscaldamento globale sia urgente e diversa da altri temi ambientali, è utile aver chiaro il comportamento della CO2 in atmosfera, ossia quanto a lungo questo gas rimane in aria una volta emesso dalle attività umane.

 

Mi è capitato di leggere vari articoli in cui si dice che la permanenza della CO2 è di X mesi, di Y anni o anche di Z decenni, con valori diversi per X, Y e Z. I valori sono così diversi perché sono tutti sbagliati, in quanto non esiste un unico valore di permanenza alla CO2in atmosfera. Per spiegarlo occorre una piccola premessa.

Per descrivere la durata di una sostanza (o anche di un isotopo radioattivo) nell’atmosfera, di solito si utilizza un parametro detto “tempo di vita medio” (mean lifetime) o a volte il “tempo di semivita”, che rappresentano rispettivamente il tempo dopo il quale è ancora presente in atmosfera il 37% e il 50% della quantità iniziale. Generalmente le sostanze hanno uno specifico processo di rimozione, e la dinamica di decadimento è di tipo esponenziale (o del primo ordine), per cui il tempo di vita medio e il tempo di semivita possono essere stimati a partire dalla costante che descrive il decadimento esponenziale (tempo di vita medio e di semivita sono rispettivamente l’inverso della costante di decadimento e l’inverso moltiplicato per il logaritmo di 2, una buona spiegazione è disponibile anche su wikipedia). Continue Reading »

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La scienza del clima non è un’opinione: dai dati emerge la realtà

L’analisi climatica è un campo dove la grande mole di dati può essere fuorviante, rendendo difficoltosa la comprensione dei fenomeni. Come dunque individuare le tendenze di fondo ed assicurarne la “robustezza”, o affidabilità? Qui presentiamo alcuni esempi su come viene affrontata questa complessa questione.


“È una scienza inesatta” (una visione fallace della scienza del clima, che non si basa certo sulle opinioni di singoli scienziati).

Quando si parla di scienza del clima, il discorso si concentra spesso sulle serie storiche di misure atmosferiche e sui modelli climatici, due importantissimi strumenti usati per capire come è cambiato fino ad oggi e come cambierà in futuro il clima della terra. Raccogliere una grande mole di dati o far “girare” un modello su un computer è tuttavia solo un primo passo nello studio del clima. Vi è poi un complesso lavoro di analisi ed interpretazione dei dati che costituisce una parte essenziale della ricerca scientifica nel campo. Continue Reading »

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L’effetto serra e il motore del sistema climatico

Mentre si discute del riscaldamento globale e dei conseguenti cambiamenti climatici, può essere utile fermarsi per capire (o ripassare) l’origine del problema, ossia la presenza di un effetto serra che è un tassello fondamentale del bilancio energetico e del sistema climatico terrestre, il cui  “motore” è il riscaldamento differenziale del pianeta causato dalla radiazione del Sole.

 

L’energia che guida il sistema climatico proviene dal Sole: sono del tutto trascurabili (al più allo 0,03%) gli apporti dovuti ad altre sorgenti esterne (stelle o altri sistemi extrasolari) o interne (attività geotermica o combustioni antropiche). Quando l’energia del Sole raggiunge la Terra, è parzialmente assorbita da diverse componenti del sistema climatico. L’energia assorbita viene riconvertita in calore, che riscalda la Terra e la rende abitabile. L’assorbimento di radiazione solare non è uniforme nello spazio e nel tempo, e già soltanto questo fatto origina il complicato pattern termico e le variazioni stagionali del nostro clima. Continue Reading »

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Capire il clima che cambia: le teleconnessioni NAO e El Niño

In questa scheda sono spiegati due fenomeni di importanza basilare per il cambiamento climatico globale, l’oscillazione nord atlantica (NAO) e El Niño (ENSO), che influiscono pesantemente sull’andamento delle temperature annuali in molte parti del pianeta, fra cui l’Italia.

 

Con il termine teleconnessioni atmosferiche, nelle scienze dell’atmosfera, ci si riferisce a “pattern” atmosferici, ovvero degli schemi di circolazione atmosferici (altrimenti detti modi di variabilità) a bassa, media e alta frequenza. Esse sono dunque espressione di parte della variabilità meteorologica e in alcuni casi anche di variabilità climatica cui assistiamo.

La teleconnessione più emblematica è quella nota come ENSO, o più popolarmente El Niño: essa riguarda la temperatura superficiale del mare nell’oceano Pacifico equatoriale, ma ha ripercussioni climatiche un po’ su tutto il globo. Inoltre, essa è anche stata la prima ad essere rilevata, storicamente, fin dal 19° secolo. Nell’ultimo trentennio, la diffusione dei modelli meteoclimatici e la necessità di dover predisporre degli archivi su tutto il globo delle variabili meteorologiche ed anche di quelle relative alla superficie terrestre hanno favorito la scoperta o consentito di postularne le basi teoriche per tutta una serie di altre teleconnessioni. Tra esse, una di quelle che hanno un peso non indifferente nell’andamento meteorologico alle latitudini europee è la North Atlantic Oscillation (NAO). Nel seguito, vogliamo entrare un po’ più nel dettaglio sia sulla NAO sia su ENSO. Continue Reading »

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Perché le precipitazioni saranno più intense nella regione Euro-Mediterranea

Nel precedente post abbiamo visto come nella zona Euro-Mediterranea i modelli utilizzati da numerosi centri di ricerca prevedono in uno scenario ad alte emissioni l’aumento della frequenza e entità degli eventi di precipitazioni molto intense, rappresentate dallo “stiramento” della coda della distribuzione della precipitazione.

Questa proiezioni sono consistenti con l’aumento della capacità dell’atmosfera di trattenere acqua, definito dall’equazione di Clausius–Clapeyron. Questa relazione permette di stabilire la quantità di acqua che può essere presente in un volume d’aria in funzione dal valore di temperatura, ed  è particolarmente rilevante per gli eventi intensi di precipitazione (Tebaldi et al. 2006, Giorgi et al. 2011), quelli che più di tutti tendono a svuotare la colonna d’acqua disponibile in atmosfera (Allen and Ingram 2002, Allan and Soden 2008). Secondo l’equazione di Clausius-Clapeyron, per ogni aumento di temperatura di 1oC, l’atmosfera aumenta la propria capacità di trattenere acqua del 7%.

Nel lavoro presentato nel precedente post, la differenza tra il 99mo percentile ed il 90mo percentile  (99p-90p) della precipitazione giornaliera ottenuta dalle simulazioni CMIP5 viene utilizzata per quantificare le potenziali variazioni nella larghezza della parte destra della distribuzione di precipitazione (ovvero del range di valori che possono essere attribuiti ad un evento di precipitazione intensa) in uno scenario di clima futuro per la fine del ventunesimo secolo. Continue Reading »

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Ma quanto è bella la CO2? – parte 2

Come raccontato nello scorso post, sul Wall Street Journal Will Happer e Harrison Schmitt hanno di nuovo rilanciato alcune tesi del negazionismo climatico. L’ultimo degli argomenti usati è che le piante attuali soffrono per la troppo bassa concentrazione di CO2.

Per capire come le piante reagiscono alla CO2, è necessario approfondire il funzionamento del processo di fotosintesi.
Le gimnosperme  si sono evolute attorno a 370 milioni di anni fa, quando la CO2 era fra i 2000 e le 3000 ppm, le angiosperme circa 165 milioni di anni fa, quando la CO2 era a poco meno di 2000 ppm. Le piante di origine più primitiva usano una forma di fotosintesi che si adatta meglio a queste concentrazioni elevate di CO2; sono chiamate “piante C3” perché nel processo di fotosintesi un enzima  fissa la CO2 in un composto a tre atomi carbonio, il fosfoglicerato, ma soprattutto i loro stomi foliari fanno passare acqua e CO2 insieme. Nelle odierne condizioni di “relativa” carenza di biossido di carbonio (rispetto a 370 milioni di anni fa), richiedono quindi tanta più acqua in quanto, per ogni molecola di CO2 che entra, perdono quantità significative di acqua. A questa situazione, le piante C3 si sono magnificamente adattate: sono diffuse su tutto il pianeta e rappresentano il 90% delle specie.  L’evoluzione ha permesso loro di tenere magnificamente il campo, ha portato allo sviluppo, circa 50 milioni di anni fa, di nuove piante C4 e CAM (come i cactus, le crassulacee), così chiamate perché nel loro processo fotosintetico l’enzima cruciale della fotosintesi, fissa la CO2 in un composto a 4 atomi di carbonio, l’ossalacetato; sono piante in grado di sopportare molto meglio un basso livello di CO2 e l’aridità.  In effetti nelle serre attuali si tende ad aumentare la concentrazione di CO2 per incrementare la produttività delle piante C3.
L’enzima della fotosintesi C3, il più abbondante enzima presente sulla crosta terrestre (la ribulosio-1,5-bisfosfato carbossilasi/ossigenasi) amichevolmente detto rubisco, non è particolarmente efficiente. A25°Ce nelle attuali condizioni, come substrato circa 1 volta su 5 riconosce l’ossigeno invece della CO2, il che lo induce a produrre una sostanza fondamentalmente inutile nel metabolismo della pianta: il glicolato. La reazione compete con quella utile. Con l’aumento della temperatura, questa inefficienza del 20% peggiora ulteriormente. Continue Reading »

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Neve chimica? No, è neve da nebbia

La neve scarseggia o manca del tutto su molte zone di montagna, e l’inverno 2011/12  fin qui è stato mite ed avaro di precipitazioni al centro-nord. In compenso, secondo molti mass media in pianura padana sarebbe caduta la “neve chimica”, che invece è “neve da nebbia”, in alcuni punti accumulatasi sulla galaverna

 

In questi giorni, incredibile ma vero, fa “sensazione” il freddo a gennaio. Sui media, sulla stampa, nei discorsi tra la gente comune, al bar, in treno si commenta il freddo quasi come se fosse una novità avere temperature sotto lo zero a gennaio, come se inconsciamente ci fossimo già adattati al cambiamento climatico e a frequenti inverni miti. Non fa invece sensazione la mancanza di neve su molte zone delle Alpi e dell’Appennino, forse perché si pensa che la tecnologia possa sopperire ai limiti della natura, come la neve trasportata dall’elicottero in Trentino (video qui) o coi camion in centro a Milano per la bizzarra scelta di svolgere in città una gara di sci di fondo, e senza parlare, poi, dei cannoni che innevano regolarmente gli impianti sciistici in alta quota.

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20 responses so far

La teoria di Milanković non vacilla

Secondo un articolo del prof. Guido Visconti sul Corriere della Sera, la teoria di Milanković sarebbe messa in discussione dalla scoperta di uno sbilanciamento delle paleo-temperature antartiche verso caratteristiche invernali. Ma la teoria di Milanković rimane solida.

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Già in una precedente occasione, il prof. Guido Visconti non si era dimostrato un grande estimatore della teoria dei cicli glaciali di Milanković (ne avevamo già parlato qui). Recentemente ha calcato la mano sul Corriere della Sera prendendo spunto da un nuovo studio tedesco di Laepple et al. intitolato:  “Sincronismo delle temperature antartiche e dell’irraggiamento solare locale a scala temporale orbitale” comparso su Nature qualche settimana fa. Un articolo un bel po’ tecnico, apprezzato, oltre che dal prof. Visconti, solo da qualche altro raro buongustaio.

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I fatti: questo nuovo studio propone l’esistenza di un artefatto nelle registrazioni degli isotopi stabili, degli indicatori della temperatura atmosferica locale, contenuti nelle carote di ghiaccio dell’Antartide (per una bella rassegna in italiano si può vedere qui). Questo perché in Antartide le precipitazioni nevose invernali sarebbero maggiori di quelle estive. E siccome è la neve in sé che registra la temperatura atmosferica, allora questi record di temperatura sarebbero sbilanciati verso caratteristiche invernali.

A questo punto gli autori prendono la curva temporale dell’insolazione dell’Antartide (su scala orbitale, 10 mila-100 mila anni) e la “adattano” secondo la regola della prevalenza delle precipitazioni invernali e… sorpresa! La curva dell’insolazione locale “adattata” segue quasi perfettamente la curva della temperatura atmosferica dell’Antartide. Ma non è finita. Questa curva, altro non è che… la curva dell’insolazione solare estiva sull’Artico (sì, Artico: emisfero Nord).

Ora non preoccupatevi se vi viene voglia di rinunciare a capire e dovete rileggere le righe sopra tre volte e magari non sono ancora chiare. A me questo studio ha fatto venire il mal di testa per una settimana. Perché? In primo luogo, le conclusioni cui si arriva possono essere opposte. Ovvero, l’insolazione estiva dell’Artico sarebbe in fase con le temperature (invernali?) registrate in Antartide. Tuttavia l’insolazione “adattata” dell’Antartide ricalcherebbe le temperature antartiche (basta leggere il titolo dello studio). Ma possono le temperature “invernali” locali dipendere in qualche modo dall’insolazione in Antartide quando qui, tanto per intenderci, è buio? E per tornare al prof. Visconti: cosa centra Milanković in tutto questo? Continue Reading »

35 responses so far

Il problema della CO2 in sei passi facili

Il grande pubblico chiede sempre chiarimenti sui concetti base scritti in modo piano, i fondamenti che i siti negazionisti tentano sempre di negare. Riteniamo utile perciò tradurre questo post – scritto da Gavin Schmidt su RealClimate nel 2007, ma certo non invecchiato – sui concetti base della climatologia e del cambiamento climatico in corso.

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Spesso ci viene chiesto di spiegare in termini semplici perché l’aumento della CO2 costituisca un problema significativo, senza basarci sui modelli climatici. Noi siamo in generale felici di farlo. La spiegazione è costituita da un certo numero di passi; spesso tendono ad essere confusi e così cercheremo di tenerli separati. Continue Reading »

91 responses so far

I FEEDBACKS NEL SISTEMA CLIMATICO

Pubblichiamo la traduzione di questo importante testo di Chris Colose, pubblicato su Realclimate ove ha dato origine ad un vivace dibattito.

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I processi di feedback nel sistema climatico sono di grande interesse tra gli esperti poiche’ non ne si capisce ancora l’esatto meccanismo e perche’ sono la fonte di maggior incertezza nelle previsioni sul clima. Difatti, i feedbacks agiscono molto spesso controintuitivamente a quanto ci si possa aspettare.

Il miglior modo per spiegare cosa siano i feedback e’ immaginarli come dei processi che amplificano enormemente o riducono drasticamente una forzante iniziale. Per forzante si intende tipicamente una forza esterna persistente nel tempo. Se tale forza, generalmente radiativa (come per esempio l’aumento di CO2 nell’atmosfera) , e’ abbastanza grande da provocare un cambiamento di temperatura che non puo’ essere bilanciato dalla capacita’ termica degli oceani di assorbire il calore in eccedente dall’atmosfera, allora si inizia a parlare di cambiamento climatico. Per cui, un cambiamento climatico puo’ essere definito tale se il bilancio radiativo energetico del sistema Terra viene alterato. Per chiarire ulteriormente il concetto di feedback, immaginiamo la Terra come un sistema composto da molte variabili. Se una di queste variabili viene amplificata energeticamente e per un tempo abbastanza lungo si scatena una serie di processi che possono portare a due risultati: o la variabile iniziale viene ulteriormente amplificata (feedback positivo) o la variabile iniziale viene drasticamente ridotta (feedback negativo). Un esempio pratico per capire quanto abbiamo appena affermato e’ pensare alla riduzione dell’estensione dei ghiacci in conseguenza all’aumento della temperatura globale (che consideriamo come la nostra variabile iniziale). La superficie dei ghacciai o degli iceberg e’ bianca, ossia riflette molta radiazione solare. Ma se ai ghiacci che fondono si sotituisce l’oceano che e’ scuro, invece, la radiazione solare che prima era riflessa, viene ora assorbita. Questo provoca un’amplificazione della variabile iniziale, cioe’ l’aumento della temperatura. Continue Reading »

40 responses so far

E intanto…’sto buco dell’ozono? (Parte seconda)

Nella prima parte di questo post si è preso spunto da una fiction televisiva in cui si faceva confusione tra i problemi del “buco dell’ozono” e del riscaldamento globale. Ora aggiungiamo alcuni dettagli.

La danza dell’ozono

Questo gas si forma nella stratosfera (tra 15 e 50 km di altezza) per azione di raggi ultravioletti (UV) molto energetici, che spaccano le molecole biatomiche dell’ossigeno in due atomi separati, molto reattivi, che aggrediscono altre molecole di O2 trasformandole in O3 triatomico; quest’ultimo può essere scisso in O2 e O da altri raggi UV un po’ meno energetici. Si stabilisce un “equilibrio oscillante”, una danza, tra giorno e notte, con formazione prevalente di O3 di giorno e sua diminuzione di notte a causa di reazioni chimiche parassite. Queste reazioni operano anche di giorno, contribuendo a distruggere parzialmente l’ozono a qualsiasi latitudine.

La circolazione atmosferica in quota tende a uniformare la distribuzione dell’ ozono, tranne che nell’atmosfera al di sopra dell’Antartide, dove la circolazione rimane chiusa e c’è poco scambio con l’aria non antartica (Figura 1).
Il problema è importante perché l’ozono assorbe gran parte della radiazione ultravioletta più nociva per gli esseri viventi (tale radiazione altera o distrugge il DNA e provoca tumori della pelle), tanto è vero che la vita ha potuto svilupparsi al di fuori degli oceani soltanto dopo la trasformazione dell’atmosfera primitiva, da anossica ad ossigenata, promossa dall’attività delle alghe e delle piante foto sintetiche, e dalla conseguente formazione di uno strato di ozono. Continue Reading »

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