I ghiacciai alpini NON stavano peggio 70 anni fa
Un recente studio svizzero suggerisce che negli anni ‘40 una radiazione solare più intensa avrebbe causato un rateo di fusione annuale dei ghiacciai superiore a quello registrato oggi. “Repubblica” raccoglie e distorce la notizia, riportando che in quel periodo i ghiacciai alpini erano meno estesi di oggi. Ma non è così.
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La superficie e la lunghezza dei ghiacciai rispondono sostanzialmente alle variazioni di temperatura e delle precipitazioni nevose, con tempi di reazione che possono variare da qualche anno a qualche decennio, a seconda della forma e delle dimensioni dei ghiacciai stessi. L’andamento meteorologico della singola annata influenza invece solo il bilancio di massa annuale, che dipende dalla somma dei processi di accumulo (dovuto generalmente alle nevicate) e di ablazione (dovuta generalmente alla fusione estiva) in un anno. Per influenzare l’estensione e la lunghezza dei ghiacciai è necessario che un determinato andamento del bilancio di massa (positivo o negativo) persista per anni o decenni; per questo motivo i ghiacciai sono ampiamente riconosciuti come uno dei migliori indicatori delle variazioni climatiche su scala pluridecennale. È ormai assodato che oggigiorno il ritiro generalizzato dei ghiacciai sia dovuto essenzialmente all’aumento globale della temperatura tanto che dalle misure delle fluttuazioni delle fronti glaciali si è potuta ottenere una ricostruzione indipendente dell’aumento globale della temperatura che risulta coerente con gli altri tipi di analisi più tradizionali.
Il ghiacciaio del Careser nel gruppo montuoso dell’Ortles-Cevedale nel 1947 e nel 2007 (le foto del Careser in questo post sono una cortesia di Luca Carturan).
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A fronte della mole di evidenze a riprova dell’attuale ritiro dei ghiacciai (si veda ad esempio qui) non può sfuggire un messaggio completamente fuori dal coro come quello lanciato da Repubblica il 3 gennaio 2010 in un articolo a firma Luigi Bignami, che riferendosi ai ghiacciai alpini, ha titolato “Nuova ricerca: sulle Alpi 70 anni fa bacini più piccoli di quelli di oggi”. L’articolo è stato addirittura lanciato da un box in prima pagina intitolato “Quando i ghiacci si sciolsero e rinacquero”, in cui si legge la perentoria frase: “L’idea ricorrente che l’attuale riduzione dei ghiacciai alpini non abbia confronti con situazioni analoghe è stata smentita da uno studio realizzato dai glaciologi dell’ETH”.
Questo articolo prende spunto da una recente ricerca svizzera che però non ha nulla a che fare con l’analisi della variazione dell’estensione dei ghiacciai alpini. Questo studio riporta invece i risultati riguardanti la fusione annuale di 4 ghiacciai svizzeri durante l’ultimo secolo ovvero di come sostanzialmente sia variata anno dopo anno l’ablazione che, come abbiamo visto, è solo la componente negativa del bilancio di massa annuale. In particolare questa ricerca indica come negli anni ’40 la fusione fosse stata maggiore del 4% rispetto all’ultimo decennio. Dunque gli autori NON “hanno cercato i rapporti esistenti tra i cambiamenti climatici e le variazioni di dimensione dei ghiacciai” come riportato erroneamente da Repubblica ma hanno solo studiato le variazioni annuali della fusione di questi 4 ghiacciai alpini durante l’ultimo secolo, confrontando in particolare gli anni ’40 e l’ultimo decennio.
Il granchio preso da Repubblica non è da poco: sarebbe un po’ come dire che, siccome negli anni ‘40 i ghiacciai fondevano di più durante le estati, allora l’area e la posizione delle fronti dei ghiacciai in quegli anni erano meno estese o più arretrate di oggi. Una montagna di dati ci indica invece che i ghiacciai alpini durante tutto l’ultimo secolo sono sempre stati più estesi rispetto ad oggi (anche se magari non come riportato nella mappa di Repubblica che illustra un confronto tra un’improbabile distribuzione dei ghiacciai nel 1850 ed oggi). Ad esempio qui si illustra come la lunghezza di tutti i ghiacciai alpini monitorati negli anni 40’ fosse largamente superiore rispetto ad oggi.
Repubblica cerca poi di aggiustare maldestramente il tiro riportando che, secondo lo studio svizzero, nonostante le temperature negli anni 40’ fossero state inferiori, i “ghiacciai dell’arco alpino si ritiravano ad una velocità superiore a quella dei giorni nostri”. Il messaggio che sembra uscirne è dunque che la ricerca svizzera avrebbe accertato che il ritiro delle fronti glaciali negli anni ’40 sarebbe stato più rapido rispetto ad oggi. Nonostante lo studio svizzero metta invece in luce solo una fusione annuale apparentemente superiore (il che non implica necessariamente un ritiro più veloce delle fronti glaciali, soprattutto in un arco temporale di soli 10 anni), paradossalmente Repubblica potrebbe in questo caso aver indovinato e offerto un’ipotesi ragionevole. I ghiacciai alpini negli anni ‘40 erano molto più estesi e dunque scendevano fino a quote decisamente inferiori di oggi: ecco perché la velocità di ritiro delle fronti glaciali in quegli anni potrebbe dunque essere stata veramente superiore rispetto ai giorni nostri!
In tutta questa confusione, anche gli autori della ricerca svizzera sembrano averci messo del loro. Citando (questa volta correttamente) la ricerca in questione, Repubblica ha riportato ”Se si estrapolano i dati per l’intero decennio dei Quaranta risulta che la quantità di neve e ghiaccio che si è sciolta è stata superiore del 4% rispetto a quella dell’ultimo decennio”. In effetti lo studio svizzero riporta che durante il decennio 1942-1952 la fusione sui ghiacciai è stata superiore del 17% rispetto alla media secolare, mentre durante il decennio 1998-2008 la fusione è stata superiore solo del 13%. Quindi il decennio 1942-1952, nonostante abbia avuto una temperatura media inferiore, avrebbe visto una fusione del 4% superiore rispetto al decennio 1998-2008, cosa che gli autori attribuiscono ad una maggior radiazione solare.
Peccato che gli autori svizzeri non specifichino che questa differenza non è statisticamente significativa (significatività che, ove opportuno, avevano sempre indicato puntualmente). Un rapido calcolo che tiene conto anche della variabilità annuale (deviazione standard), indica infatti che la fusione annuale negli anni ’40 e nell’ultimo decennio sono state superiori del 17 ± 26 % e del 13 ± 23 % rispetto alla media secolare. Escludendo i due anni in cui si sarebbero verificate le fusioni di gran lunga maggiori (1947 e 2003), si ottengono ratei di fusione superiori alla media piuttosto diversi: 9 ± 15% per gli anni ’40 e 8 ± 16% nell’ultimo decennio. Se poi si tenesse anche conto del grado di incertezza con cui può essere simulata la fusione, legata a processi complessi quali le variazioni di massa e di energia che avvengono in un ghiacciaio, allora la variabilità associata sarebbe ancora più elevata di quella appena calcolata (già enorme). In conclusione, l’affermazione riportata dallo studio svizzero che “La fusione di neve e ghiaccio nei 4 siti alpini di alta quota è stata maggiore del 4% negli anni ’40 rispetto all’ultimo decennio” risulta quantomeno azzardata, in quanto non robusta dal punto di vista statistico. È desolante rimarcare come questo improbabile 4% sia stato poi trasformato da Repubblica in “-4%: estensione dei ghiacci negli anni 40 rispetto ad oggi”.
Infine, anche l’individuazione, da parte della ricerca svizzera, della radiazione solare quale principale responsabile di una forte fusione dei ghiacciai negli anni ‘40, non sembra inattaccabile in quanto, per calcolare la fusione annuale dei 4 ghiacciai, le ricostruzioni delle temperature e delle precipitazioni usate sono state estrapolate da registrazioni ottenute a quote molto meno elevate (facendo dunque assunzioni importanti quali gradienti altitudinali costanti). Inoltre appare molto difficile simulare variazioni dell’albedo (radiazione riflessa dai ghiacciai) in un periodo come quello degli anni ’40 per il quale non si dispone di osservazioni. Per non parlare poi della simulazione della nuvolosità in alta quota durante quegli stessi anni…
In ogni caso, gli anni ’40 sono stati veramente un “bagno di sangue” per i ghiacciai alpini, i quali hanno essenzialmente battuto tutti in ritirata, proprio come oggi, con fusioni annuali sicuramente comparabili. Tuttavia ogni conclusione (basata su soli 4 ghiacciai), tendente a stabilire se la fusione di tutti i ghiacciai alpini in quel periodo fosse stata più o meno intensa di oggi, sembra quantomeno prematura.
In conclusione, non è vero che i ghiacci alpini erano meno estesi nei decenni passati.
Il titolo e l’articolo di Repubblica contengono gravi errori, e così è per gli scritti di quanti hanno rilanciato questa notizia.
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Testo di Paolo Gabrielli
16 responses so far
Ottimo post, complimenti
e si’ che la distinzione fra il valore di una variabile e la sua derivata non dovrebbe essere una cosa complessa…
Pfui, geleremo fino ad aprile dice il Biometeo di Firenze, vedrete che ricrescono come i capelli del prim – del signore che taglia i fondi alla lotta contro la malaria per fare i dispetti a Bill Gates. Un granchio me l’aspettavo anche per il paper di Frank su Nature, così non ho guardato i giornali.
Al paper nippo-svizzero, aggiungerei la variabile industria, tra la guerra e l’effetto del piano Marshall, niente polveri, niente dimming…
“Bagno di sangue”: accusa di terrorismo in 10,9, 8…
Mi ha sorpreso nel grafico di Zanon la quantita’ di ghiacciai in avanzamento fino a circa 1980. E’ un lag nella risposta al raffreddamento dell’emisfero nord iniziato ben prima?
Come non detto. Guardando i dati di rianalisi NCEP in un rettangolo intorno alle Alpi le temperature sono in decrescita fino a circa il 1980 per poi risalire.
@ oca sapiens
“Al paper nippo-svizzero, aggiungerei la variabile industria, tra la guerra e l’effetto del piano Marshall, niente polveri, niente dimming…”
Ottimo punto. Anche Claudio Smiraglia, proprio in fondo all’articolo di Repubblica in questione, lo pone. Ma aggiunge anche che pero’ ” se da un lato l’areosol respinge le radiazioni del sole, dall’altro riflette quelle che arrivano dalla superficie terrestre intrappolandole”. Ma.. non ne sono sicuro. Al limite sarebbe forse da valutare l’azione antagonista della radiazione riflessa da alcuni aerosol (solfati) in atmosfera e della variazione dell’albedo legato alla deposizione di altri tipi di aerosol (black carbon) sui ghiacciai. Tuttavia il raffreddamento degli anni ’70 e la contestuale avanzata dei ghiacciai in quegli anni suggeriscono che e’ il primo processo (tra questi due) a giocare un ruolo significativo.
@ NoWayOut
In effetti un lag c’e’. Dapprima sono i ghiacciai piu’ piccoli ad avanzare e poi via via quelli di medie dimensioni che avanzano solo in seguito contribuendo a formare il picco indicato nel grafico di Zanon, verso i primi anni ’80. I ghiacciai piu’ grandi (l’Aletsch ad esempio) invece non hanno quasi risentito di questo breve raffreddamento. Tuttavia il loro numero e’ molto limitato sulle Alpi e quindi il grafico e’ dominato da ghiacciai medio-piccoli che in generale rispondo anche a modeste variazioni climatiche.
@ Gabrielli
quindi, in ogni caso, il bagno di sangue degli anni 40 sui ghiacciai alpini è una conferma indipendente (anche se geograficamente limitata) del picco termico di quella decade come lo si vede nei grafici di registrazione delle temperature globali?
Incredibile come si riesca ad alterare in questo modo le notizie…
Non ho capito tuttavia qual’è la valutazione dell’autore del post rispetto alla ricerca: i dati sono sostanzialmente accettabili si, no o “forse perché i dati sono purtroppo parziali”?
Bravo Paolo Gabrielli.
Leggo abitualmente Repubblica e ho notato l’errore del 3/1, ma non ho visto rettifiche nei giorni successivi.
Per toccare con mano il ritiro dei ghiacciai alpini basta fare una passeggiata in montagna – per esempio al Ghiacciaio dei Forni sopra Santa Caterina Valfurva – e dare uno sguardo a qualche vecchia cartolina.
Anni fa c’è stata una bella mostra a Berna (disponibile anche sul web per un po’) con confronti molto accurati tra foto attuali e di inizio secolo: impressionante.
@ Giulio
Il forte ritiro delle fronti dei ghiacciai alpini in quegli anni e’ coerente con l’aumento delle temperature globali registrato nella prima meta’ del secolo scorso e culminato negli anni ’40-’50. Piu’ difficile e’ dire se il melt index dello studio svizzero sia legato o meno ad una specifica variazione termica positiva durante gli anni ’40. Come ha giustamente osservato Vincenzo, questo parametro corrisponde ad una sorta di derivata parziale della massa di un ghiacciaio, ed e’ difficile stabilire se le sue variazioni annuali durante una sola decade possano essere significative ed essere associate ad un’anomalia della temperatura globale negli anni ’40.
@Simone82
La ricerca svizzera propone un’ipotesi interessante che pero’, secondo me, e’ ancora lontana dall’essere una conclusione (come invece sembra apparire dal loro articolo) e che merita dunque di essere approfondita e testata con altri metodi e su altri ghiacciai.
@Gianfranco B.
Se la mostra che dice lei era “Glaciers sous serre” al Musée alpin, trova qualcosa qui:
http://www.greenpeace.org/luxembourg/photosvideos/slideshows/les-glaciers-sous-serre
E non è niente rispetto ai ghiacciai disegnati da Agassiz nel 1840.
http://www.worldviewofglobalwarming.org/pages/glaciers.html
un pò di ghiacciai prima e dopo
Forse può essere interessante, a proposito di quel che dice Smiraglia, questo recente abstract esteso di Ramanathan:
http://www-ramanathan.ucsd.edu/testimonials/BlackCarbonHearing-testimony.pdf
In questo (e in altri più recenti studi, Ramanathan e Feng 2008, link già postato), si sottolinea come i BC causino in generale dimming superficiale ma allo stesso tempo, invece, inducano un riscaldamento in troposfera; invece i solfati (“Non-BC”) agiscono prevalentemente raffreddando la superficie (in modalità diretta ->”effetto mascheramento” della radiazione solare globale e in modalità indiretta -> impatto su proprietà microfisica, luminosità e lifetime delle nuvole) mentre hanno un RF quasi nullo in troposfera. Il bilancio energetico (al TOA), a livello globale, è positivo per i BC (RF stimato di +0.9 W/m2) e negativo e maggiore per i solfati (RF stimato di -2.3 W/m2).
http://img684.imageshack.us/img684/9172/ramana.png
Il ruolo particolare dei BC è sottolineato alla pag. 7, laddove si ricorda, ovviamente, che da un lato, assorbendo la radiazione globale diretta e riflessa, causano quello che ho già detto prima. Ma poi c’è anche il ruolo esercitato mediante deposizione su neve e superfici glaciali, con RF positivo.
@ steph
Grazie per i riferimenti. Si, forse Claudio Smiraglia si riferiva alle “brown clouds”, un fenomeno che amplificherebbe l’AGW nella regione himalayana e di cui si sta cominciando a studiarne i possibili effetti sui suoi ghiacciai. Pero’, quanto riguarda le Alpi, non sono sicuro che questo concetto sia applicabile.
@ Paolo Gabrielli
Come al solito grazie per la sua cordialità. Mi viene da chiedere: che tipo di implicazioni potrebbe avere la conferma di questo tipo di dati? Soprattutto per quanto riguarda la teoria della CO2, perché ovviamente altrove un paper del genere è stato classificato come un’altra conferma della debolezza della teoria che vuole addossare tutta la colpa alla CO2, ergo all’uomo…
Qualcuno ha sostenuto che, a prescindere da cosa davvero sostenuto nell’articolo, la fusione annuale di “ben” quattro ghiacciai svizzeri possa essere “un’altra conferma della debolezza della teoria” del _global_ warming? O tempora o mores!
Ricevo questa e-mail dal Prof. Claudio Smiraglia che grazie alla sua cortesia posso riportare molto volentieri anche su Climalteranti:
“Caro Gabrielli,
non avevo visto il pezzo di repubblica, ma ho letto il suo blog
per quanto riguarda gli aereosol facevo un discorso molto generale (era un’intervista telefonica) sui loro effetti contrastanti e non del tutto chiariti.
Il problema a proposito di brown cloud e black carbon è ben messo in evidenza nei lavori di Ramanathan, indicati anche nei blog di commento.
Sui ghiacciai alpini è un tema finora trascurato. E’ noto da sempre l’effetto del detrito di varia granulometria sulla fusione e in generale sull’ablazione differenziale.
Solo recentemente però si sta cercando di quantificare l’effetto sia dei materiali fini di trasporto eolico (meno precipitazioni, morene più secche, maggiore alimentazione di materiali fini, minore albedo) (Oerlemans et alii, 2009), sia delle deposizioni antropogeniche su neve e ghiaccio.
A questo proposito stiamo impostando un programma di ricerche con i colleghi del cnr su alcuni ghiacciai italiani
Sulle variazioni dei ghiacciai dell’ultimo secolo-mezzo secolo pesa a livello divulgativo e giornalistico la eccessiva semplificazione dei fenomeni e delle metodologie di rilievo che spesso si è costretti a fare (cè molta differenza fra variazione di lunghezza,
variazione di spessore e di bilancio di massa, variazioni areali), il tutto complicato dalla significatività più o meno elevata del campione considerato. E’ fuor di discussione che le superfici glaciali degli anni ’40 erano maggiori di quelle attuali; è plausibile, come suggerisce Lei, che in quel periodo i tassi riduzione frontale potessero essere in qualche caso maggiori di quelli attuali (o almeno di qualche anno fa).
E’ un risultato che si ritrova anche in un nostro articolo sui ghiacciai italiani (considerando le loro variazioni frontali fino al 2002).
Probabilmente lo conosce, in ogni caso glielo allego
cordialità
claudio smiraglia”
I lavori citati da Smiraglia si possono trovare:
qui http://www3.interscience.wiley.com/journal/118504805/abstract?CRETRY=1&SRETRY=0
e qui http://www.ingentaconnect.com/content/igsoc/jog/2009/00000055/00000192/art00015