E intanto…’sto buco dell’ozono? (parte terza)
Nella primavera del 2011 si è formata una voragine nello strato dell’ozono stratosferico al di sopra dell’Artico, analogo a quella che stagionalmente da alcuni decenni appare sull’Antartide. La storia trentennale dell’ozono stratosferico porta quindi altri insegnamenti.
Figure 1a e 1b – La concentrazione colonnare dell’ozono sull’Artide e l’entità della sua diminuzione al 26 marzo 2011 (Fonte: Garcia, 2011).
In marzo e ottobre 2011, lo stato dell’ozono stratosferico è tornato al centro dell’attenzione della comunità scientifica e dei media: per alcuni mesi si è registrata una pericolosa sacca di bassa concentrazione di Ozono sull’Artide, che ha interessato in particolare la Groenlandia nord orientale e le coste atlantiche della Scandinavia, nonché, in misura minore, tutte le isole e le coste del Nord canadese e della Siberia, l’Islanda e il centro della Groenlandia stessa (Figure 1a e 1b).
La concentrazione dell’ozono stratosferico alla fine di marzo ha toccato le 250 Unità Dobson (DU), con un deficit di 170 – 110 DU rispetto ai valori di 420 – 360 DU registrati negli stessi mesi negli anni 1995 – 2008 (fonte: WMO). Le unità DU esprimono in millimetri di altezza “colonnare” la concentrazione di tutto l’ozono stratosferico che insiste su di una determinata superficie, riportato a condizioni standard.
Si è così formato un secondo “buco”, questa volta nella stratosfera al di sopra dell’Artide, paragonabile, almeno per profondità, se non per estensione, a quello individuato negli anni ’80 sul Polo Sud (vedi per paragone la situazione a fine settembre 2010, al corrispondente inizio della primavera Antartica – Figure 2a e 2b).
Figure 2a e 2b – La concentrazione colonnare dell’ozono sull’Antartide e l’entità della sua diminuzione al 26 settembre 2010 (Fonte: Garcia, 2011).
Come già discusso nel primo post su questo tema, dalla metà degli anni ’80, con la presenza di stazioni scientifiche in Antartide e con l’uso dei satelliti, si era individuata l’esistenza di una forte carenza di ozono nella stratosfera che permaneva anche durante la stagione estiva australe, estendendosi anche al di là dei margini del continente.
Il depauperamento dell’ozono artico nel 2011 ha avuto come conseguenza un pericoloso aumento della radiazione solare UV più penetrante, registrata in queste aree ai primi di aprile e che ha colpito sia pure in misura minore, man mano che ci si muoveva verso Sud, tutti i Paesi dell’Europa Centro-settentrionale, fino all’Italia settentrionale.
Una spiegazione per questa tardiva comparsa del “buco dell’ozono” sull’Artico è legata al riscaldamento globale, in particolare all’aumento della temperatura invernale e primaverile della troposfera dell’Artico; questo comporta, al contrario, un raffreddamento degli strati stratosferici sovrastanti per mantenere il bilancio radiativo.
Da ricordare che il trend opposto delle temperature troposferiche e stratosferiche è una delle impronte dell’aumentato effetto serra antropico sul riscaldamento globale, ed è una delle prove contro l’origine extraterrestre del riscaldamento globale (macchie solari, raggi cosmici, teorie astronomiche, ecc). Nella sottostante figura si nota come i dati satellitari mostrano chiari ratei di riscaldamento nella troposfera e di raffreddamento della stratosfera (l’area in grigio nella figura a destra mostra la funzione di peso assegnata alle T delle diverse quote dai sensori delle temperature satellitari).
Variazione della temperature della troposfera a diverse quote e peso delle temperature allevarie quote assegnate dai diversi sensori (da IPCC-AR4, Fig. 3.16 e 3.18)
Un altro fattore da considerare è che le nubi più alte, ricche dell’umidità accumulata durante l’estate, possono penetrare negli strati freddi della stratosfera con la formazione di minuti e diffusi cristallini di ghiaccio (nubi iridescenti), che restano in sospensione per la scarsa vorticosità verticale. Inoltre si formano nubi di acido nitrico triidrato (gialle). Entrambe sono favorite dalla presenza di nuclei di condensazione (aerosol di acido solforico e polveri ultrafini).
Sui cristallini si depositano sia gli ossidi di cloro (ClO, ClO2, intermedi importanti del ciclo dell’ozono) che i loro composti di addizione con gli ossidi di azoto, rilasciati in quota dagli scarichi degli aerei in rotta transpolare. Questi complessi agiscono come un “corpo di fondo”, una riserva di sostanze “killer” dell’ozono, che, non appena il calore primaverile comincia a fondere i cristallini di ghiaccio, sublimano e reagiscono liberando in definitivo gli atomi di cloro.
Questa spiegazione è in linea con quella più generale proposta a metà degli anni ’70 da Molina e Rowland (cui nel 1995 fu conferito il premio Nobel per la Chimica insieme con Crutzen) e tuttora valida. Questi ricercatori avevano mostrato che gli atomi di cloro liberi sono catalizzatori molto efficienti per la decomposizione delle molecole di ozono. Entrambi i meccanismi erano stati in definitiva accettati anche per la distruzione dello strato di ozono antartico, nel qual caso però si era anche invocato la presenza dell’esteso vortice che isola tutta l’atmosfera del continente dal resto della circolazione globale (vedi la parte seconda di questo post).
In altre parole, il riscaldamento globale sta interagendo con il recupero dello strato di ozono stratosferico che è in corso e continuerà nei prossimi decenni per completarsi solo verso fine secolo, come chiaramente mostrato dalle proiezioni contenute nel rapporto WMO.
Nella figura a fianco (Fig. 3-11 del rapporto WMO) sono mostrate le previsioni fatte al 2010 sulle variazioni complessive di ozono stratosferico tra le latitudini 60-90° Nord e Sud rispettivamente, secondo vari modelli: la linea tratteggiata rossa verticale avrebbe marcato il ritorno alle condizioni del 1980.
Il fatto che, come mostrato anche da una recente pubblicazione, al 2011 sull’Artico si siano perse più di 110 invece di sole 30-40 DU e che sull’Antartide non si stia recuperando con sufficiente velocità fornisce quindi un altro insegnamento: dopo più di 35 anni da quando la comunità scientifica ha evidenziato il problema e dopo 24 anni dall’approvazione del Trattato di Montreal, si stanno ancora registrando impatti importanti. In gran parte ciò è dovuto alla notevole stabilità dei CFC, che rimangono attivi per anni in atmosfera.
D’altra parte, se si fossero aspettati decenni per bandire le sostanze ozono-distruttrici, dando retta alle voci negazioniste e a chi si opponeva al loro bando, aspettando di avere la certezza assoluta di tutti gli impatti possibili e la quantificazione precisa di tutti i costi e benefici delle azioni di mitigazione, oggi la situazione sarebbe ben peggiore.
Testo di Guido Barone e Stefano Caserini, contributi di Riccardo Reitano e Marco Barone
One response so far
Salve ragazzi , mi piace molto questo articolo (parte 1,2,3) , e sono davvero entusiasta di poter parlare con persone come voi .
Vorrei solo aggiungere alcune info per quel che riguarda la reattivita’ dell’ozono verso altri composti e/o elementi , chiaramente sempre di attivita’ antropica 🙁
L’idrogeno molecolare (che a prima vista sembrerebbe una risorsa pulita) ,reagisce lentamente con l’O3 dando acqua ed ossigeno molecolare, ultimamente si parla molto di idrogeno come risorsa energetica , ma le emissioni in atmosfera non saranno positive per il povero ozono.(le emissioni di idrogeno aumenteranno con la sua produzione stoccaggio trasporto e utilizzo ). L’aggravante per l’idrogeno è che essendo il gas piu’ leggero ,non fara’ fatica ad arrivare nella fascia di ozono.
Altri gas che possono reagire sono gli alcheni e gli alchini(per dare ozonidi) , composti solforosi(H2S ad esempio), CO(per dare CO2) , SO2(per dare SO3) ,ed altri ..
Magari sono informazioni inutili, ma mi sentivo in dovere di elencarle.
cordialita’
Francy