Filosofia dei cambiamenti climatici
Cambiamenti climatici. Che ci azzecca la filosofia? In quanto orizzonte globale dell’umanità all’alba, invero ormai inoltrata, del XXI secolo, il global warming e le possibili o probabili catastrofi che esso prospetta non possono non essere oggetto della riflessione filosofica. A tale riguardo è però necessario fare un chiarimento preliminare, per così dire ex negativo: non può essere ufficio di una Filosofia dei cambiamenti climatici verificare e ancora meno stabilire quanto corrette siano le modellizzazioni e simulazioni elaborate dai climatologi. Di rilievo filosofico è per contro che i grandi sconvolgimenti della biosfera cui oggi assistiamo debbono considerarsi come disastri tecno-naturali, ossia come il risultato di complesse azioni e retroazioni fra l’umano e il non umano. A prescindere dalla veridicità o attendibilità delle previsioni fatte in sede climatologica, i guasti all’ambiente hanno oggi raggiunto dimensioni planetarie tali da mettere comunque in pericolo l’esistenza della civiltà così come oggi la conosciamo.
Nel mio saggio Catastrofi e cambiamenti climatici. Sette riflessioni su pensiero e rappresentazioni del disastro tecno-naturale, pubblicato da Mimesis l’anno scorso, affronto temi fra loro diversi: dalla possibilità di narrare la catastrofe alla forza o debolezza persuasiva dei dati e modelli scientifici che la descrivono; dalla critica degli usi del mondo ai futuri immaginati e immaginabili; dallo spirito della complessità alla retorica della responsabilità nei confronti delle generazioni future. Il tratto comune delle riflessioni proposte è la consapevolezza che i disastri già avvenuti, in corso e annunciati scuotono fino alle fondamenta l’edificio del pensiero che la cultura non solo filosofica è andata costruendo nei secoli.
L’articolo qui di seguito presentato illustra alcuni sviluppi della riflessione avviata nel libro, come pure alcune piste per future indagini. Trattasi di un testo piuttosto lungo, invero poco confacente al format “blog”– ma il pensiero filosofico ha le sue esigenze, fra cui quella di potersi distendere.
Stefano Caserini mi ha chiesto di scrivere un articolo di presentazione del mio saggio sui cambiamenti climatici, cioè di redigere un’autorecensione. In ciò risiedono parecchie insidie, fra cui quella di cadere vittima della sindrome di Daneri, il poeta di cui Borges scrisse: “Compresi che il lavoro del poeta non consisteva nella poesia, ma nell’invenzione di ragioni perché la poesia fosse ammirevole; naturalmente questo lavoro successivo modificava l’opera per lui, ma non per gli altri”.
Tenterò di non incappare in questa e in altre trappole discorrendo della genesi del saggio, ma soprattutto presentando qualche argomento nuovo che è andato emergendo e sviluppandosi dopo la redazione dello stesso.
Il testo è scaturito da una sollecitazione del climatologo Luca Mercalli, il quale da tempo andava e tutt’oggi va ripetendo che ogni disciplina, e quindi anche la filosofia, deve fare la sua parte nella lotta e nella mobilitazione contro l’avanzante disastro planetario. A questo riguardo sorge quasi immediata la domanda sulle ragioni di questa necessità. È quasi uno slogan l’affermazione secondo cui il superamento della crisi ambientale non potrà non essere tecnologico, ma che del pari non potrà essere solo tecnologico. Il suo carattere di ovvietà, o quantomeno la sua persuasività quasi immediata, deve indurci a essere vigili, a interrogarci su quanto essa sottende e implica.
In primo luogo, detta asserzione ripropone la divisione del lavoro fra scienze dure e scienze morbide, fra discipline sollecitate all’approntamento di mezzi e altre chiamate a investigare sui fini. Ora, è sin troppo facile mostrare come fra le cause della crisi ambientale vi sia proprio questa divisione, e più precisamente il radicale sbilanciamento che le due sfere hanno conosciuto segnatamente negli ultimi cento anni. Già agli inizi del Novecento, il filosofo e sociologo tedesco Georg Simmel aveva indicato nel netto e incontrastato (o incontrastabile) predominio dei mezzi sui fini una delle caratteristiche fondamentali della tarda Modernità.
A questo riguardo è importante osservare che tale predominio non si esprime in una limitazione, restringimento o atrofia dei fini; al contrario, oggi sia nella sfera individuale sia in ambito collettivo assistiamo a un’inarrestabile proliferazione tanto degli strumenti che degli obiettivi. Quantomeno nei paesi a economia avanzata, società, gruppi e individui dispongono di una pluralità di dispositivi, congegni e strategie per l’attuazione o raggiungimento di una pluralità di scopi, finalità e traguardi; sempre però è il criterio di fattibilità espresso e sancito dalla conoscenza e dalla disponibilità dei mezzi a decidere della legittimità-attuabilità dei fini.
Si tratta qui dell’antico e complesso problema del rapporto o della dialettica fra mezzi e fini. L’incremento contestuale di entrambi ha prodotto la situazione di sostanziale predominio degli uni sugli altri rilevata da Simmel. Ciò non deve sorprendere, giacché nessuna effettiva dialettica può dare luogo a una situazione di equilibrio o equivalenza fra gli “opposti”. Fintanto che fra questi vige un rapporto di semplice contrapposizione o negazione reciproca, nulla si muove; per contro, le cose mutano nel momento in cui uno dei due elementi, fattori o attori penetra nella sfera dell’altro, ne fa per così dire proprie le ragioni. Così i mezzi hanno preso il sopravvento sui fini assecondandoli e promovendone la proliferazione, talché oggi – e ciò è quasi un’ovvietà – l’unico vero fine, non importa quanto esplicitamente o implicitamente condiviso, è la produzione di sempre nuovi e rinnovati mezzi.
Una diffusa reazione a questo stato di cose consiste nella ricerca o anelito di un’epoca d’oro in cui gli scopi prefiguravano (o prefigureranno) la natura e l’approntamento degli strumenti. Una siffatta reazione è senz’altro regressiva, e questo per la semplice ragione che una tale epoca non è mai esistita, è una fantasia o un fantasma del presente proiettato rispettivamente nel passato o nel futuro. Non può darsi perfetta simmetria o concordanza fra mezzi e fini, vuoi per il carattere astratto della suddivisione, vuoi perché è una logica della vita che i fini concreti, effettivamente dispiegati nel reale, oltrepassino i propri confini e si tramutino in mezzi, e viceversa che i mezzi tendano a sconfinare nella sfera dei fini per divenire essi stessi fini.
Ecco perché il “non-solo-tecnologico” dell’affermazione riportata in apertura, e di cui sembrerebbe doversi occupare in primis la riflessione filosofica, va considerato attentamente quanto a sottintesi e implicazioni. In questione non è l’elaborazione di argomenti ai fini di una buona causa (la lotta contro il disastro climatico planetario), la definizione di un’etica della responsabilità o altre cogitazioni in materia di comportamenti e pratiche responsabili; ciò darebbe luogo a mere perorazioni filosofeggianti, non già a una Filosofia dei cambiamenti climatici. In termini molto generali, ciò di cui essa può e a mio giudizio deve occuparsi è precisamente il rapporto fra mezzi e fini così com’è andato affermandosi. Ovviamente non è questo l’unico tema di riflessione, nondimeno il nesso o forse meglio il complesso di nessi fra l’oggettivazione della natura, impostasi con la rivoluzione scientifica dell’era moderna, e la progressiva riduzione della stessa a risorsa e quindi a mezzo, configura un campo d’indagine imprescindibile.
Comunque la si valuti, detta oggettivazione costituisce una pietra miliare nella storia dell’umanità, oltre che un fatto da considerarsi come irreversibile. In questo senso, ogni tentativo di reincantamento, rimitizzazione o riscoperta mitologizzante della natura si risolve immancabilmente in affabulazione regressiva e ideologica, di nessun aiuto e anzi di grave ostacolo alla comprensione del degrado della biosfera e delle minacce su scala planetaria. Del pari ideologica, ma in modo larvato e quindi ben più insidioso, è la visione che pone la riduzione della natura a mezzo e risorsa a disposizione dell’uomo come conseguenza diretta e necessaria dell’oggettivazione del mondo. Secondo la stessa, la costituzione della natura in oggetto di ricerca, misurazione e comprensione equivarrebbe a renderla disponibile e quindi appropriabile ai fini dell’uomo. Insomma, siamo all’antico adagio baconiano: sapere è potere… di appropriazione, consumo e alla fin fine di distruzione.
Mito o razionalità, narrazione o scienza, saperi icastico-concettuali o saperi matematico-sequenziali: questo sembrerebbe essere l’aut aut irriducibile, cui in nessun modo sembrerebbe possibile sottrarsi. Non è sempre facile dimostrare quanto questa contrapposizione sia ideologica. Per cominciare si potrebbe asserire che essa stessa è già una narrazione, ma così dicendo si corre il rischio di incamminarsi su un crinale disseminato d’insidie.
Secondo la doxa postmodernista, la realtà è il prodotto del discorso e i cosiddetti fatti sono solo narrazioni di fatti, talché per cambiare il corso del mondo occorre cambiare tipo di narrazione. Ora, a prescindere dalla rozzezza dell’argomento e dalle stantie diatribe che esso rievoca circa la possibilità/impossibilità della conoscenza di accedere alla realtà in sé, vi sono almeno due aspetti da considerare attentamente. Primo, i tanti discorsi e le tante narrazioni sono tutt’altro che equivalenti, e questo perché asserire l’equivalenza di discorsi e narrazioni implica quantomeno che vi sono gradi diversi, per l’appunto non equivalenti, di discorso e di narrazione. Secondo, dal fatto che la dimensione discorsiva o narrativa sia inestinguibile, sia cioè presente in ogni campo del sapere, della ricerca e in generale della vita, si deve semplicemente concludere che il reale è comunque fatto anche di discorsi, narrazioni e finzioni. Un terzo aspetto o meglio spunto di riflessione ci vien suggerito da Slavoj Žižek in Disparità, saggio recentemente pubblicato in traduzione italiana (Ponte alle Grazie): “non bisognerebbe scambiare la realtà per finzione – bisognerebbe essere in grado di discernere, in ciò che sperimentiamo come finzione, il nocciolo duro del Reale che siamo capaci di sopportare solo se lo rendiamo finzione” (p. 254).
Nel primo capitolo del mio saggio sui cambiamenti climatici affronto la questione della possibilità di narrare la catastrofe ambientale o bellica di dimensioni planetarie. Essa è posta a tema o in qualche modo evocata in non poche produzioni artistiche, letterarie e cinematografiche della contemporaneità, nondimeno nelle stesse si deve scorgere un problema di rappresentazione o meglio di rappresentabilità. In particolare l’argomento del global warming e della vita degli uomini nell’orizzonte di sconvolgimenti immani sembra opporre resistenza al processo di lavorazione artistica, e quando viene affrontato dà spesso luogo a opere di denuncia, didascaliche oppure di mero intrattenimento. Per esempio in ambito cinematografico vi sono film di vario genere che evocano o presentano la catastrofe: di action, intimistici, catastrofisti, horror, fantascientifici, fantasy. Generalmente in essi il disastro è un accadimento, peraltro spesso già avvenuto, che funge da orizzonte scenico della vicenda narrata, ma non è propriamente il tema della narrazione. L’immersione nella dimensione della catastrofe avviene piuttosto in opere che non ne trattano esplicitamente, come il romanzo Rumore bianco di Don De Lillo oppure il film Pokot, un thriller eco-animalista-femminista della regista polacca Angieszka Holland. Vale anche in questo caso la distinzione attuata da Adorno fra contenuto (Inhalt) e contenuto di verità (Wahrheitsgehalt): il primo attiene all’argomento di un’opera finzione, ai materiali che essa “lavora”; il secondo al nucleo specifico della stessa, alle rotture e scarti sia di forma sia di senso che essa pone in atto, alla sua capacità di modificare quello che si potrebbe chiamare l’organon percettivo collettivo.
Nel saggio La grande cecità, che ho letto solo dopo la pubblicazione del mio testo, lo scrittore indiano Amitav Ghosh sostiene che la forma “romanzo”, la quale in passato è stata capace di raccontare guerre e crisi, si rivela oggi del tutto incapace se non profondamente restia ad affrontare il cambiamento climatico. Ciò per il fatto che, questa la tesi di fondo dello scrittore, la cultura del romanzo è intimamente legata alla storia e all’ideologia del capitalismo. Pur con qualche dubbio rispetto a talune argomentazioni, che non mi sembrano tenere adeguatamente conto dei mutamenti che la forma del romanzo ha conosciuto nel Novecento, trovo il testo di Ghosh senz’altro interessante e ricco di spunti di riflessione. Le sue conclusioni, contrappuntate all’osservazione di Žižek sopra riportata, mi consentono ora di porre la seguente domanda: mediante quale rappresentazione saremmo capaci di sopportare il Reale? Si potrebbe per così dire capovolgere la domanda e chiedere: perché il reale della probabile o possibile catastrofe planetaria non è esperito o esperibile mediante rappresentazioni? Possiamo dirci soddisfatti se rispondiamo che la catastrofe è l’insopportabile, che in quanto tale non può essere oggetto di rappresentazione, narrazione e finzione?
La mia risposta, peraltro abbastanza scontata, è che alla catastrofe non fanno difetto le rappresentazioni; al contrario, vi è un flusso incessante d’immagini che ci narrano del disastro che avanza. Non già per assenza o carenza, quindi, bensì per eccesso di rappresentazioni, la fatticità delle sciagure è neutralizzata e resa inoperosa. Ogni immagine della catastrofe, per esempio di ghiacciai in via di scioglimento, è una potenziale esperienza o comunque una potenziale evocazione del Sublime (naturale), quel sentimento suscitato dall’incontro con l’incommensurabilmente grande e potente della natura – solo che oggi non ha più luogo nessuna riconversione o sublimazione in un’essenza spirituale eterna, nessun (ri)congiungimento con il tempo che non trascorre dell’universo. Questo perché sappiamo che ciò che vediamo reca i segni delle retroazioni della natura o più semplicemente è un cosiddetto effetto collaterale dell’attività di appropriazione del mondo da parte dell’uomo.
Prima che la scienza scoprisse e dimostrasse l’esistenza del tempo profondo della terra e dell’universo, poco più di un secolo e mezzo fa, è stato il sentimento o forse meglio la forma della percezione del Sublime la o una via per accedere alla potenza del mastodontico, dell’incontenibile, immane e sempiterno. Incontriamo oggi la storia profonda della terra nella visione dei mutamenti che sappiamo aver posto in essere, ma di cui non sappiamo, conosciamo poco o possiamo solo stimare i tempi (forse cento, trecento, mille e più anni). L’estensione o lunghezza del tempo del pianeta non è più una conoscenza affascinante che ci dispensano le scienze, bensì un divenire che tange le nostre vite e che in epoche forse non così lontane potrebbe produrre effetti devastanti per l’intera umanità o comunque per ampie parti della stessa.
Ma il vero problema è oggi. Che significa per noi vivere, operare, fare lavoro di prevenzione, salvaguardia, ecc., in una prospettiva secolare o millenaria, di eventi da noi originati che eventualmente accadranno fra molti secoli? Qual è il senso dell’asserita responsabilità nei confronti delle generazioni future? Come si sostanzia nel presente la responsabilità verso individui che nasceranno fra duecento anni? Sono segno di miseria intellettuale le frequenti escapades retoriche con cui tali domande vengono aggirate (salvare il pianeta per le generazioni a venire). Ogni tentativo di dare risposte riconverge, anzi, deve essere fatto riconvergere sul presente, più esattamente sul progetto o sui progetti di umanità che è possibile o impossibile elaborare, e prima ancora sulle narrazioni dominanti che conformano il reale presente.
Fra gli argomenti principali dei cosiddetti negazionisti del cambiamento climatico, ma anche di altri che osservano i mutamenti da posizioni che potremmo chiamare fatalistiche, è che il clima è sempre cambiato. L’osservazione in sé è corretta, e forse è la prova di una maggiore consapevolezza rispetto a tanti del fatto che la natura non è equilibrio, bensì che è “già disturbata in sé stessa” (Žižek), disarmonica e segnata da immani rotture – e quindi anche di una maggiore consapevolezza del tempo profondo del pianeta su cui viviamo. Ciò che è errato è la conclusione, non importa quanto esplicita o esplicitata, secondo cui, siccome il clima muta a prescindere dall’attività dell’uomo, non è data la possibilità che quest’ultimo possa introdurre ulteriori elementi di mutamento. Insomma, il mutare della natura sarebbe immutabile. Tutta la storia dell’umanità mostra al contrario che i mutamenti della natura possono essere mutati e vengono mutati in continuazione – un tempo in ambiti relativamente ristretti, oggi su scala planetaria (e domani, chissà, nello spazio extraterrestre).
In tema di global warming vi sono notoriamente posizioni assai diverse e contrastanti: chi nega semplicemente il problema; chi sostiene che la scienza, la tecnologia e il mercato troveranno una soluzione; chi crede che si possa far poco o nulla e assume un atteggiamento fatalistico; altri che fanno appello alla responsabilità e ai comportamenti virtuosi dei singoli; infine chi vorrebbe un ritorno mediante autolimitazione al rispetto di Madre Natura e dei suoi equilibri. Nessuna di queste narrazioni contempla e tanto meno integra nel proprio narrare, ossia nel proprio “fare mondo”, l’incontro con il tempo profondo.
“Il potere della cultura umana non è solo la costruzione di un universo autonomo simbolico al di là di quello che sperimentiamo come natura, ma il produrre nuovi oggetti ‘innaturali’ che materializzano il sapere degli uomini” (Žižek, cit. p. 379). Per tanto tempo fra le principali materializzazioni del sapere vi è stato il Paesaggio, il quale costituisce il risultato dell’incontro fra l’umano e il non-umano. In esso la natura è plasmata dal lavoro e dalla tecnica, ed è solo in ragione della rimozione della violenza e dell’insieme degli atti di dominio (anche dell’uomo sull’uomo) che lo hanno generato che lo stesso ha potuto divenire un oggetto di contemplazione e di piacere. Il disastro tecno-naturale che i cambiamenti climatici prospettano, e più precisamente gli sconvolgimenti planetari che ne potrebbero derivare, devono essere considerati come il corrispettivo contemporaneo del paesaggio.
Laddove in epoche passate si produceva paesaggio, oggi si producono catastrofi tecno-naturali, ma all’origine di entrambi vi è lo stesso principio generativo, la stessa dinamica di materializzazione spaziale di saperi e competenze. Vi è tuttavia una differenza assai rilevante; oggi, infatti, non solo è cambiata la scala spaziale, bensì anche quella temporale. È radicalmente mutata sia l’estensione sia la velocità dei mutamenti della realtà materiale, ma soprattutto sono mutati i tempi implicati dall’opera di trasformazione della stessa. Se nel paesaggio i tempi della natura e i tempi dell’uomo erano fra loro commisurabili (salvo in occasione di eventi eccezionali come terremoti e altri cataclismi naturali che repentinamente potevano vanificare tanta opera di edificazione del mondo da parte dell’uomo), l’odierna alterazione planetaria della realtà ambientale determina l’irruzione nel presente del tempo profondo, ossia dei tempi geologici della terra, non commisurabili con l’orizzonte storico in cui l’uomo sembra voler continuare a situarsi e a “fare mondo”.
Un’invenzione fondamentale che ha fatto l’uomo per stare al mondo, che è essa stessa un modo di costruirlo e abitarlo, è la storia e i suoi tempi cadenzati dalla memoria delle generazioni. Con l’affacciarsi quasi repentino del tempo profondo, quest’invenzione vacilla, e con essa sembra vacillare la possibilità stessa di narrare storie, ossia di mettere in atto riduzioni della complessità mediante immagini, rappresentazioni, figure. I modelli e gli scenari elaborati dalla scienza di possibili o probabili futuri del pianeta derivanti dai cambiamenti climatici possono recare tracce o residui narrativi, ma in quanto simulazioni numeriche sono sostanzialmente impermeabili a qualsiasi narrazione. In ragione delle scale temporali che dispiegano, sembrano inghiottire i tempi storici in cui l’uomo da qualche migliaio di anni vive.
Il disastro totale cancellerebbe tutta la storia dell’uomo, su questo non occorre spendere parole. Ciò che molti scenari prospettano è però un disastro a rate, e a ben vedere è proprio questo quanto più o meno esplicitamente presuppongono gli appelli a prepararsi, a fare fronte con misure adeguate alle mutate condizioni del pianeta in tempi ormai non troppo lontani: una sequela di sconvolgimenti della realtà ambientale planetaria, i quali andranno ad aggiungersi ai tanti problemi che già oggi conosciamo, come pure a potenziarne gli effetti. Nell’ipotesi senz’altro verosimile che la storia dell’uomo non finisca tanto presto, si tratta quindi di capire come i tempi lunghi della terra possano essere integrati nei tempi della storia, in che modo l’uomo possa vivere contestualmente in dimensioni temporali così diverse.
In apparenza il problema non sussiste: da relativamente tanto tempo l’umanità ha la consapevolezza che la propria storia si affaccia sul buio della notte dei tempi, qui e là rischiarato da qualche scoperta; del pari sa che l’esistenza futura del nostro pianeta è dell’ordine di qualche miliardo di anni. Con la scoperta dei mutamenti climatici indotti dall’attività umana la situazione è però cambiata; infatti, ora sappiamo di avere innescato su scala planetaria mutazioni che in natura hanno o potrebbero avere luogo solo sull’arco di tempi lunghissimi. Tempo profondo e tempo storico interagiscono più o meno visibilmente nell’odierno; di ciò vi sono tracce in documenti di vario genere. Due esempi fra loro assai diversi mi servono per illustrare il modo in cui ciò avviene.
Un brevissimo video francese mostra quanto succederebbe sul nostro pianeta qualora l’uomo dovesse scomparire improvvisamente. Dopo poche ore tutte le illuminazioni si spegnerebbero; dopo alcune settimane le centrali nucleari, in assenza di gestione e monitoraggio umano, esploderebbero e contaminerebbero aree vastissime; cento anni più tardi le metropoli sarebbero ricoperte di vegetazione, quindi gli edifici e le altre costruzioni comincerebbero a crollare, talché a diecimila anni di distanza delle stesse non rimarrebbe quasi più niente. Infine, trentamila anni dopo, della precedente esistenza dell’umanità non vi sarebbe più alcuna traccia. Il video si conclude con una sentenza invero anodina: “Nous avons plus besoin d’elle qu’elle n’a besoin de nous”. Beh certo, già solo per i suoi tempi, la terra (e l’universo intero) non ha bisogno di noi, ma il vero grande problema, per dirla con una boutade, sta proprio qui.
Di tutt’altro spessore è l’altro esempio di come, nell’immaginario dei nostri giorni, il tempo profondo possa intersecarsi con il presente. Si tratta del romanzo Vorrei che tu fossi qui – Wish you were here, dello scrittore croato-svizzero Sergej Roic (Mimesis 2017), ove si narrano vicende di uomini di quarantamila anni fa che si intrecciano con quelle d’individui del presente, e con le visioni e riflessioni di pensatori di tutte le epoche. Funge da filo conduttore o vettore direzionale il Principio antropico, ossia l’idea che l’autocoscienza non sia un risultato casuale dell’evoluzione della materia bensì il τέλος, la causa finale della storia dell’universo. Anche qui, occorre ribadire, a decidere della riuscita dell’opera non sono i contenuti, i materiali impiegati e lavorati, bensì il contenuto di verità (Wahrheitsgehalt). Nel caso in esame, quest’ultimo si esprime nella forma o meglio nelle forme assunte dal romanzo, nei modi in cui vicende preistoriche si combinano e incrociano con vicende della storia recente e del presente. Roic parte e riparte, propone ripetuti avanti-indietro, segue pensieri, rappresentazioni e visioni d’uomini preistorici che poi riemergono pari pari oppure trasformate in personaggi che si muovono da un continente all’altro in periodi diversi della storia contemporanea; suggerisce che il passato profondo tracciò le linee direttive del presente, ma anche il contrario, che il presente è costitutivo del passato (perché appunto l’uomo, per “fare futuro”, incessantemente lo inventa e reinventa). In Vorrei che tu fossi qui i tempi si confondono e il presente si dilata, incurva, piega e ripiega, il che è come dire che diviene presente profondo.
La profondità del presente si contrappone all’eterno presente di cui molti parlano e che non è altro che una versione della “falsa infinità”, ossia la situazione in cui a qualcosa si aggiunge continuamente qualcos’altro di nuovo il quale, sul momento, sembra delineare un mutamento, offrire nuove opportunità, nuove vie da percorrere, ma che in realtà non fa che ricalcare, anzi, scavare più in profondità il solco necessitante in cui l’umanità si è incanalata e che, così ci indica la climatologia, potrebbe condurci a disastri immani. Prendendo per buono il Principio antropico occorre quindi rilevare che, alla luce della possibilità di tali disastri, il telos, la via o grande direttrice evolutiva della coscienza cosmica potrebbe interrompersi repentinamente – onde consegue che la sua realizzazione non è destino bensì che è tutta rimessa ai progetti dell’uomo, a meno di ipotizzare che la causa finale dell’autocoscienza, una volta raggiunto un certo livello, sia precisamente l’autodistruzione.
Il presente profondo e lo sforzo immaginativo, narrativo e riflessivo di abitarvi si contrappongono al presente liscio e quindi ai dispositivi ideologici e agli apparati che lo apparecchiano nella forma di unico reale possibile, cioè come il migliore dei peggiori mondi possibili.
Testo di Raffaele Scolari
10 responses so far
Trovo affascinante la relazione tra tempo storico/umano e tempo profondo, quello “anche senza di noi”. Con la nostra tecnologia abbiamo resuscitato dinosauri quali i combustibili fossili, li abbiamo convertiti in forma gassosa. La nostra lotta con i dinosauri carbonici assume un senso epico perche’ la posta in gioco e’ l’autocoscienza dell’universo. A meno che…. a meno che non siamo soli. Il bello della filosofia e’ che si puo’ spaziare liberi ed allora mi chiedo: non e’ che la visione descritta sia troppo antropocentrica? Miliardi di galassie, miliardi di anni disponibili. Pallottoline, siamo pallottoline scriveva Pirandello, o no?
La recente scoperta di migliaia di esopianeti ci rende prossimi all’osservazione della loro atmosfera. In breve ne conosceremo la composizione e quando troveremo anche l’ossigeno (troppo instabile per rimanere in atmosfera senza un processo che continui ad alimentarlo, la fotosintesi) allora questa sara’ anche una rivoluzione copernicana di come mentalmente ci collochiamo nell’universo e nel tempo.
Grazie per l’articolo Raffaele, spero di trovare il tempo anche per rileggerlo.
Grazie Raffaele per il bell’articolo e per la chiarezza. Pur senza competenze in campo filosofico ho l’impressione di aver capito! Mi resta un dubbio che spero abbia dignità e non sia troppa rozzo, comunque ci provo: capisco e apprezzo la necessità di fare filosofia e non perorazioni. E capisco che scendere al caso concreto fa forse perdere il punto di vista. Ma se ti seguo in generale sull’idea che oggi i mezzi a volte comandino i fini, nello specifico dei Climate Change, o almeno per la loro mitigazione, il mezzo tecnologico è veramente un mezzo. Non detta il fine… o almeno così mi sembra. L’esordio dell’articolo in cui sempre più i mezzi dettano i fini, non mi quadra. Oppure ho mal interpretato?
Se si voleva uccidere un possibile dibattito si è riusciti perfettamente. Al di là della enorme complessità dei concetti espressi, spesso autoreferenziali, resta il dubbio che il senso più profondo riguardi più la sfera psicologica che quella speculativa.
“Se si voleva uccidere un possibile dibattito si è riusciti perfettamente.”
Non è una novità. Welcome to the club.
Funziona così, per esempio:
““Overall, we find that choices about how to do the calculations that are not only scientific but also moral and political determine the quantitative results, said Dr. Jan Fuglestvedt, research director at CICERO.”
Morale e politica mescolate con clima, lasciar cuocere 30 minuti e servire ben caldo.
https://www.cicero.uio.no/en/posts/climate-news/assigning-historical-responsibilities-for-extreme-weather-events
Vedo di rispondere alle domande, esplicite o implicite, senza “distendermi” eccessivamente.
La questione dell’antropocentrismo è complessa e anche antica. A rigori, dalla nostra centralità non possiamo mai uscire, così come non possiamo avere visione della realtà dall’esterno, ossia da nessun luogo. Una tale visione possiamo però pensarla e concettualizzarla, e questo non è poca cosa: è un buon antidoto contro il relativismo. Le scienze ci mostrano e dimostrano che la realtà attorno a noi si comporta in modo ampiamente indipendente da come noi la pensiamo e guardiamo, ma non sempre, come anche la fisica quantistica segnala. La realtà esterna esiste per contro proprio, ma pure esiste il nostro modo di guardarla; insieme costituiscono il Reale. Questa è una delle ragioni per cui tanto spesso ci è così difficile sopportarlo.
Possiamo vedere molto, ma non tutto, già solo perché per vedere quanto ci sta dietro dobbiamo girarci e perdere di vista quanto ci sta davanti. Dovessimo un giorno incontrare forme di civiltà aliene, non credo che questo stato di cose muterebbe. Certo, in quel caso potremo eventualmente simulare come loro ci vedono – ma non tanto diversamente da come già oggi possiamo simulare come vedono il mondo i ragni e le balene.
Mezzi e fini. Anche questo è un tema difficile. Forse all’inizio del mio articolo non sono stato sufficientemente chiaro. La dialettica fra mezzi e fini non si arresta: i mezzi approntati in vista di determinati fini “aprono” su altri fini, i quali poi richiedono l’approntamento di nuovi mezzi. Quanto Simmel descrive all’inizio del Novecento (ma le sue osservazioni valgono tutt’oggi), è il rapidissimo incremento dei mezzi a disposizione dell’uomo nella vita quotidiana e in generale – mezzi che poi aprono su sempre nuovi fini che “chiamano” l’approntamento di sempre nuovi mezzi. Ciò produce l’effetto di dirigere sempre più l’attenzione sui mezzi o, il che è lo stesso, di funzionalizzare i fini.
Non dubito che la tecnologia potrà approntare, come del resto già avviene, nuovi mezzi per contrastare il degrado ambientale, ma questo non modifica l’inclinazione del piano su cui da tempo ha luogo il balletto della dialettica mezzi-fini.
Autoreferenziale. Il termine è impiegato per caratterizzare chi o ciò che fa riferimento solo a se stesso, trascurando o perdendo ogni rapporto con la realtà esterna e la complessità dei problemi che la segnano. Per poter rispondere all’appunto, lo stesso dovrebbe essere sostanziato con qualche argomento. Se invece il termine è impiegato con funzione irrisoria, l’appunto è semplicemente gratuito.
Quanto alla ricetta consigliata, ho l’impressione che il tempo di cottura indicato sia ampiamente insufficiente e che chi scrive abbia solo una sommaria conoscenza degli ingredienti nominati.
@scolari
“… ho l’impressione che… chi scrive abbia solo una sommaria conoscenza degli ingredienti nominati.”
Artifizio retorico trito e ritrito!
Solo pochi “eletti” hanno la conoscenza, il Verbo, chi solleva dubbi citando articoli scientifici peer-reviewed “non riesce a capire”.
Spiegare come la climatologia possa definirsi una scienza, e accettarne le sue conclusioni, quando si mettono morale (ancora, ancora) e politica (!!) prima della scienza stessa solo dio lo sa.
Vabbe’, dai… niente di nuovo.
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@marcog
Capisci adesso cosa intendevo? 🙂
@scolari
“Possiamo vedere molto, ma non tutto, già solo perché per vedere quanto ci sta dietro dobbiamo girarci e perdere di vista quanto ci sta davanti. Dovessimo un giorno incontrare forme di civiltà aliene, non credo che questo stato di cose muterebbe”
Il problema veramente grande è che, siccome quello che chiamiamo ‘mondo reale’ di fatto è un modello mentale (che nasce dal rapporto tra il mondo davvero reale e i nostri personali metodi di analisi), capita che normali terrestri siano alieni l’uno all’altro. Per fare un esempio banale, se una persona vive in un ‘mondo’ dove esiste qualcosa come la ‘capacità di carico degli ecosistemi’ e in quella di un altro no, è come se appartenessero a pianeti differenti e diventa difficile qualsiasi confronto costruttivo.
Grazie Raffaele, molto interessante.
E grazie anche per il tono delle risposte, sarebbe bello se si potessero sempre leggere questi toni…
@robertok06
A volte a scrutare troppo nell’infinitamente piccolo il rischio è di diventare così miopi da perdere di vista le sorti del pianeta e rischiare che il tempo profondo annichilisca il nostro tempo presente e futuro prossimo.
La natura ha sempre sopportato l’intervento umano ora non più perchè l’enorme pr oliferazione dei mezzi rinforzata da bisogni artatamente stimolati in primis quelli da iperconsumo e politiche di dominio.Nella storia del pensiero filosofico è avvenuto che la realtà costruita dalla ragione calcolante ha gradualmente sostituito quella naturale fatta dalla compatibilità sistemica delle forze tradotta in termini epistemici nella proprorzione analogica-Tolta di mezzo l’analogazione fra le forze da Kant a vantaggio della loro analisi funzionale il resto è venuto da sè: è nata la società affluente dalla scelta matriciale ben precisa: la preminenza della logica analitica sull’analogica. In sostanza l’occidente ha dimenticato Aristotele ritenendolo l’idolo autoritario della chiesa cattolica quando invece offre ancora la matrice fondamentale della rinnovata alleanza natura-uomo: il primato della finalità distributiva delle forze cui vanno subordinati gli strumenti vale a dire che l’armonia della vita vale più del profitto.Ormai è tardi per ricomprenderlo….