Record di caldo e prime “mobilitazioni climatiche” sindacali in Italia
Durante un’estate rovente in gran parte dell’Europa, in Italia sono avvenuti i primi scioperi contro condizioni di lavoro insostenibili per via delle ondate di calore, rese più frequenti e intense dal riscaldamento globale.
Nell’estate della Siberia in fiamme, cui si prova a porre rimedio sensibilizzando le indifferenti istituzioni russe con una petizione internazionale, nell’estate in cui la foresta amazzonica brasiliana viene aggredita con nuovo vigore, ma in cui finalmente qualcuno da molto in alto segnala che qualcosa di importante non va, anche l’Europa in giugno e luglio ha dovuto fronteggiare almeno due straordinarie ondate di calore.
La prima, a fine giugno, ha fatto superare diversi record in buona parte dell’Europa centro- occidentale. La seconda, nella terza decade di luglio, si è distinta per l’estensione “continentale” dell’area coinvolta (dalla Russia al Portogallo, dal Circolo polare artico alla Sicilia) e, oltre a far passare notti tropicali a buona parte degli europei (quanto meno a quelli che per scelta o, la maggior parte, per indisponibilità economica, sono ancora senza aria condizionata), ha determinato l’innalzamento dello zero termico ben oltre la vetta del Monte Bianco con conseguenze imprevedibili, come il pericolosissimo collasso improvviso di un ghiacciaio sotterraneo a Zermatt. Il tutto mentre una lapide viene posta a memoria del primo ghiacciaio islandese cancellato dal riscaldamento globale.
In Italia le due ondate di calore sopracitate si sono fatte sentire, sia in termini di disagio per le elevate temperature ma anche, se non soprattutto, per gli elevati tassi di umidità, dovuti alle sempre più frequenti ingerenze dell’Anticiclone africano che trasporta sul Mediterraneo centro-occidentale, caricandole di umidità, le roventi masse d’aria di origine sahariana. Entrambe le ondate sopracitate sono state interrotte da rapidi passaggi perturbati che, per via dei marcati contrasti termici, hanno provocato eventi impulsivi (temporali, grandinate, trombe d’aria) di notevole energia che, seppur non immediatamente attribuibili al riscaldamento globale antropogenico, sempre più spesso trovano spazio nelle cronache dei media per la tragicità e la significatività dei danni che provocano rispettivamente alle persone e agli ecosistemi e/o alle cose (si veda ad esempio la tempesta dello scorso autunno che determinò l’abbattimento di milioni di alberi sulle Dolomiti o la distruzione di interi tratti di costa della Liguria ).
Sui media mainstream e sui social, dove si informa la maggioranza delle persone, hanno invece trovato spazio minimo i disagi, dovuti alle onde di calore, subiti dai lavoratori italiani.
In Italia, in merito, vige la legge 81/08 che riporta nei vari allegati criteri di carattere generale tipo:
1.9.2.1. La temperatura nei locali di lavoro deve essere adeguata all’organismo umano durante il tempo di lavoro, tenuto conto dei metodi di lavoro applicati e degli sforzi fisici imposti ai lavoratori.
1.9.2.2. Nel giudizio sulla temperatura adeguata per i lavoratori si deve tener conto della influenza che possono esercitare sopra di essa il grado di umidità ed il movimento dell’aria concomitanti.
Le indicazioni tecniche INAIL e le regole europee indicano che il migliore stato ambiente per lavori di ufficio si ha in un intervallo di temperature fra 18 °C e 24 °C, se possibile con non più di 7 gradi in meno della temperatura esterna (se la temperatura esterna supera i 31-32 °C sarebbero necessari una serie di ambienti a temperatura a scalare).
Evidentemente le regole sopra sono inadatte, incomplete o da modificare oppure sono state disattese, ovvero le condizioni da esse richieste non sono state garantite da numerosi datori di lavoro dei settori produttivi industriali. Infatti ad esempio a Porcia (Pordenone), ad Arco (Trento), a Lainate (Milano), a Guastalla (Reggio Emilia), Cerro Maggiore e Atessa (Chieti) i lavoratori di aziende del settore metalmeccanico, ma non solo, si sono visti costretti ad incrociare le braccia per via di temperature e condizioni climatiche intollerabili, potenzialmente in grado di mettere a rischio la loro salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Il collegamento tra ondate di caldo, riscaldamento globale antropogenico e posizioni sul clima del sindacato non è ancora diffuso tra i lavoratori; eppure CGIL, CISL e UIL ne hanno una e i Segretari generali ne avevano parlato in marzo quando hanno aderito ai Fridays for Future.
Ci sono parecchi studi (*) su come si modificherà la condizione lavorativa per il riscaldamento globale e le necessità di adattamento, soprattutto per i lavori all’esterno, dovranno entrare inevitabilmente nelle piattaforme di lotta sindacale in tutto il mondo. Nell’Unione Europea, le normative stanno già cambiando insieme al clima.
In Francia – e in maniera simile in Gran Bretagna e Belgio – per le aziende la chiusura è prevista dal Codice del lavoro in base al “dispositif pénibilité” aggiornato nel 2017 che stabilisce un livello massimo di rischio per la salute per tipo di attività e per durata della “penosità”. Al dispositivo, si aggiungono le misure nazionali o regionali dei cosiddetti “Piani canicola”, decise in funzione del livello di “Vigilanza” previsto da Météo France. Quando nelle aziende non ci sono pause o protezioni adeguate, in teoria l’autosospensione (“arrêt de travail”) viene retribuita, in pratica le ore perse vengono spesso recuperate. I provvedimenti riguardano soltanto i lavoratori dipendenti e non tutelano i precari, sempre più numerosi nell’edilizia, l’agricoltura e i servizi.
Però i lavoratori e i sindacati cominciano a mobilitarsi, anche in Italia, e molti hanno deciso di partecipare agli scioperi mondiali convocati dal movimento dei ragazzi dal 20 al 27 settembre, in occasione del vertice dell’Onu per una “Climate Action”. È questo uno dei meccanismi dal basso, in parte inaspettato, che obbliga e sempre più obbligherà la classe dirigente (politica ed economica) ad affrontare le conseguenze dei cambiamenti climatici.
(*) Per esempio, il rapporto pubblicato dall’International Labour Organization nel 2016, ”Climate Change and Labour: Impacts of Heat in the Workplace”, quello del Joint European Centre uscito nel 2018 “PESETA III: climate change impacts on labour productivity”, e la rassegna più breve di Ed Day et al. “Upholding labour productivity under climate change: an assessment of adaptation options”, Climate Policy, vol 19 n. 3, 2019.
Testo di Simone Casadei, Claudio Della Volpe, Sylvie Coyaud, Mario Grosso, Stefano Caserini, col contributo di Federico Antognazza.
14 responses so far
Che cominci a rendersi conto che c’è qualcosa di strano nell’aria, persino il “negazionista in capo”?
Donald J. Trump
✔
@realDonaldTrump
Pray for the people in the Bahamas. Being hit like never before, Category 5. Almost 200 MPH winds.
“Colpiti come mai prima, da venti a quasi 200 miglia orarie”? Vuole dire che quanto si sta vedendo adesso è inedito in tempi storici?
Alleluia! Ha visto la luce….
Ma secondo voi i “daily record” cittadini, indicati nella cartina in vetta all’articolo, hanno senso?
Ricordo di averne sentito parlare per la prima volta qualche anno fa, in occasione di uno Snowmageddon negli Usa: per mostrare che si trattava di un evento eccezionale “anti global warming”, alcuni riportarono che in certe città Usa il giorno tot non era mai stato così freddo.
A me parve allora abbastanza ridicolo riportare record di temperatura su una scala spaziale e temporale così ristretta: è evidente che in quei casi conta molto il caso, come una massa d’aria particolarmente calda o fredda, che si sposta un po’ più a ovest , est sud o nord del consueto, facendolo qualche giorno prima o dopo di quanto aveva già fatto in passato.
Eventi puntuali, che non dicono nulla sull’andamento climatico.
Magari mi sbaglio, ma eviterei di riportare “record”, al di sotto della scala temporale mensile, e meglio ancora se riguardano non singole città, ma intere regioni.
Non c’è niente di strano nel riportare record urbani e relativi a un giorno specifico dell’anno. Se succede che a Milano non ha mai fatto così caldo il primo agosto perché non dirlo? Se i record si susseguono (come sta accadendo) vuol dire che le cose stanno cambiando a Milano (o Bologna o Firenze) dal punto di vista climatico. Da anni in Emilia calcoliamo un indicatore di riscaldamento climatico basto sulle anomalie termiche registrate giorno per giorno rispetto a una serie di 365 medie giornaliere cui viene solo applicato un filtro per arrotondarne l’andamento, trovate l’ultimo rapporto disponibile qui: https://www.arpae.it/siccita/?bollettini alla voce Bollettino delle anomalie termiche. L’indicatore viene calcolato sulla regione perché siamo un servizio regionale ma nulla vieta di calcolarlo su singole aree urbane.
Marletto, non ci sarà nulla di male, ma secondo me ha ben poco senso: se il primo agosto non aveva mai fatto tanto caldo a Milano, può essere semplicemente un caso, magari aveva fatto così caldo il 31 luglio o 2 agosto, e allora a che ci serve quel record?
Comunque, se si da credito a questo tipo di record, non ci meravigliamo poi se i negazionisti, che certo di record nazionali mensili o annuali di freddo non ne hanno molti da esibire ultimamente, si scatenino con record urbani giornalieri di freddo: moltiplicando 365 giorni per le centinaia di migliaia di centri urbani esistenti al mondo, si può stare certi che ogni anno se ne verificheranno un bel po’…
alsarago58,
Eventi puntuali, che non dicono nulla sull’andamento climatico.
Però i punti si possono sommare per calcolare la probabilità di una ricorrenza nel tempo (clima). E il totale annuo dei record di caldo e di freddo serve all’amministrazione pubblica per pianificare e per tutelare la salute dei cittadini. Milano, per dire, può decidere se investire in asfalto “anti-gelo” o in zone ombrose e fontane.
Vale anche per le aziende e i privati, penso.
Non solo i climanegazionisti, adesso arriva l’ondata dei climacatastrofisti, quelli che dicono “rassegnamoci all’Apocalisse, non c’è più niente da fare. Tanto vale godersi gli ultimi giorni”
La moda è stata lanciata sul New Yorker dello scrittore Jonathan Franzen.
E questi rischiano di essere più dannosi degli altri.
Scientists Are Furious Over a Viral Article on How to ‘Prepare’ For Climate Change
Scientists and climate experts are furious after a New Yorker opinion column declared the fight against climate change useless.
In an essay entitled “What If We Stop Pretending” published Sunday, journalist and author Jonathan Franzen writes that the destruction of the planet by human-induced climate change is inevitable and that environmentalists and climate change activists are delusional for trying to stop it.
“It’s hard to imagine major outlets publishing essays declaring efforts to reduce poverty hopeless,” Climate Central editor John Upton wrote on Twitter.
“Or telling cancer patients to just give up. Yet this Climate Doomist trope flourishes – penned, best I can tell, exclusively by older, comfy white men.”
The scientific consensus is that reducing emissions can still slow climate change.
An October 2018 report by the United Nation’s Intergovernmental Panel on Climate Change found that keeping global warming below 1.5 degrees Celsius of pre-industrial average temperatures could reduce the frequency of the most dangerous climate events, such as severe drought and extreme heat.
Franzen disagrees with the notion.
“If you’re younger than sixty, you have a good chance of witnessing the radical destabilization of life on earth-massive crop failures, apocalyptic fires, imploding economies, epic flooding, hundreds of millions of refugees fleeing regions made uninhabitable by extreme heat or permanent drought,” Franzen wrote in The New Yorker.
“If you’re under thirty, you’re all but guaranteed to witness it.”
UC Santa Barbara assistant professor Leah Stokes, NYU professor and climate economist Gernot Wagner, Project Drawdown director and environmental scientist Jonathan Foley, and author Alex Steffen were among those who criticised Franzen’s opinion.
Franzen è un grande scrittore pluri-premiato; è sicuramente persona di grande intelligenza e sensibilità. Ho letto due dei suoi romanzi più famosi e l’ho potuto apprezzare.
Diciamo che il miglior modo per contraddire le sue profezie apocalittiche sarebbe quello di mostrargli una curva delle emissioni globali che finalmente e stabilmente sia dotata di una derivata negativa, possibilmente molto negativa.
Sarete d’accordo anche voi che fino a che questo non si verifica la sua visione dello stato delle cose, per quanto sgradevole, resta purtroppo assai realistica.
HE, certo, ma purtroppo è una profezia autorealizzantesi quella di Frenzen: se scoraggi tutti dicendo che non c’è più niente da fare, la curva negativa nelle emissioni non l’avrai mai e l’Apocalisse si avvera.
Tutti quelli che si occupano di questi temi, immagino, siano pessimisti nel loro cuore, vedendo l’enormità delle cose da cambiare e l’inerzia del sistema.
Ma si evita di diffondere il panico, puntando piuttosto a divulgare quello che può essere fatto, per non bruciare neanche le poche chance che probabilmente ci rimangono di evitare una catastrofe climatica.
In tutti i film catastrofici americani, a un certo punto c’è quello che grida “Non c’è più niente da fare, rassegnamoci a morire…” e in genere l’eroe lo stende con un pugno…
Ormai dubito che l’inversione di rotta avverrà volontariamente, più probabile che sia la conseguenza di una crisi/collasso economico-finanziario (causato dall’impatto coi limiti delle risorse e dall’impossibilità di sostenere una crescita materiale infinita).
Ma anche a quel punto potremmo continuare a fare danni per un po’, su che scala è difficile dirlo…
Vedremo nei prossimi anni/decenni se le emissioni di GHG seguiranno la traiettoria ipotizzata nell’ accordo di Parigi (salita ancora fino al 2030 circa e poi discesa regolare di qualche % annuo fino a valori negativi ben oltre la metà del secolo) oppure se una duratura crisi economica globale abbatterà le emissioni di colpo. Certo dal punto di vista della limitazione dell’ aumento a fine secolo delle temperature globali superficiali il secondo scenario dovrebbe risultare più efficace
Alberto, l’Accordo di Parigi non contiene ipotesi sulle emissioni, fissa degli obiettivi sulle temperature (art. 3 mi pare, << 2°C) e poi dice di raggiungere un bilancio fra emissioni e assorbimenti nella seconda metà del secolo.
Il picco dovrebbe avvenire il prima possibile, più si aspetta più è difficile che si raggiunge l'obiettivo sulle temperature.
Ciao
Laurea, l’ obiettivo dell’ accordo di Parigi a cui si riferisce è relativo alla fine di questo secolo.
Tra l’ altro per poterlo raggiungere con un livello adeguato di probabilità nell’ accordo si ipotizzano emissioni negative verso gli ultimi decenni del XXI secolo.
Riguardo alle emissioni a breve termine (nel senso odi 20-25 anni), a Parigi i vari Stati hanno deciso di accettare gli INDC di ciascuno, ossia impegni di “riduzioni” (termine che per molti Stati in realtà corrisponde ad una diminuzione della velocità di aumento rispetto al BAU) volontarie delle emissioni. Ora se si considerano globalmente questi impegni (ipotizzando che vengano rispettati, il che non è così scontato) si dovrebbe arrivare a circa 55 GtCO2eq di emissioni globali al 2030.
Certo i mass-media generalisti non hanno evidenziato questo aspetto, ma alcuni dei siti più interessati al tema climatico sì.
https://globalclimatejobs.wordpress.com/2015/12/13/world-pledges-to-increase-emissions/
A proposito, dato che l’ accordo di Parigi prevede di fare il punto della situazione nel 2020, potrebbe essere utile se Climalteranti mostrasse e commentasse i dati sull’ andamento delle emissioni antropiche (appunto di gas climalteranti) verificatesi in questi ultimi anni. Sarebbe anche interessante considerarne il trend, come pure fare il punto sui famosi (i)NDC.
L’ aggiornamento di Climate-action-tracker a fine 2018, infatti mi sembra per ora dare ragione al giudizio a caldo di Hansen sulla qualità dell’ accordo.
https://climateactiontracker.org/global/cat-emissions-gaps/
Come triste commento sulle possibili conseguenze per chi lavora all’aperto, e in assenza di tutele:
https://www.theguardian.com/global-development/2019/oct/02/revealed-hundreds-of-migrant-workers-dying-of-heat-stress-in-qatar-each-year