L’eredità climatica ed energetica di Angela Merkel
Lo scorso 2 dicembre Angela Merkel ha pronunciato il suo ultimo discorso da cancelliere tedesco. Un cancellierato lungo 16 anni che l’ha proiettata tra i massimi leader politici di questo inizio di secolo. Molti sono stati i bilanci del suo operato ma pochi, almeno in Italia, si sono soffermati sul suo “lascito climatico”. Dal 2005, anno del suo insediamento, al 2021 la Merkel ha partecipato a molte conferenze sul clima (la COP15 di Copenaghen del 2009, la COP21 di Parigi del 2015 e fino alla COP26 del 2021), oltre che di incontri dei G8 e G20 in cui i temi climatici erano all’ordine del giorno. Questo le ha valso il soprannome di “Climate Chancellor” per il suo impegno. Molti media internazionali, dal Time a Nature passando per The Guardian e Bloomberg si sono chiesti quale bilancio trarne, con valutazioni che ne riconoscono la tenacia politica quanto la scarsità di risultati. Prima di valutarli, un breve passo indietro.
Gli studi e la “gavetta”
Nel 1986 Merkel ha conseguito un dottorato di ricerca in chimica-fisica presso l’Accademia delle scienze di Berlino-Adlershof nell’allora Germania dell’Est. Successivamente ha applicato la meccanica statistica alle collisioni tra molecole di gas nel laboratorio del chimico Rudolf ZahradnÍk a Praga, pubblicando diversi articoli.
Nature l’ha definita una cancelliera con un “evidence-based thinking” e indubbiamente la sua formazione scientifica ha giocato un ruolo importante nelle sue posizioni politiche, in questa come in altre questioni.
Angela Merkel entra al Bundestag nel 1990 e diventa Ministro dell’Ambiente nel quinto governo Kohl (1994-1998; nella foto sopra, intervento di Merkel alla COP1 di Berlino). In quella veste presiede la Conferenza sul clima di Berlino del 1995 e prende parte alle trattative per l’accordo di Kyoto del 1997. Una “gavetta” di tutto rispetto.
2005: la Cancelliera
Al G8 del 2007, ospitato a Heiligendamm sul Mar Baltico, la Merkel avrà modo di dire “Sono più di dieci anni che combatto per l’azione per il clima e la considero una lotta dura”, e rispondendo alle domande sulle riserve del presidente degli Stati Uniti George W. Bush nei confronti di un limite di riscaldamento di 2°C, rivolta al giornalista disse : “Puoi essere certo che non accetterò che scoperte scientifiche affidabili come quelle dell’IPCC vengano annacquate”.
Ma è in occasione della COP 15 di Copenhagen che la “Climate Chancellor” dà fondo a tutte le sue capacità persuasive per fare in modo che i partecipanti condividano di fissare il limite dei 2° C. Il giorno prima della conclusione del vertice, preoccupata dallo stallo delle trattative la Merkel diffonde un appello in cui scrive:”… se vogliamo tornare a casa e spiegare perché non abbiamo fatto nulla qui, allora faremo un favore a coloro che non vogliono fare nulla contro il cambiamento climatico…. Ma questo sarà un terribile segnale per tutti coloro che vogliono dare al nostro mondo un futuro luminoso nel 21° secolo……. Ciò significa che dobbiamo dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2050 rispetto al livello del 1990. Tutti sono d’accordo su questo. In qualità di Cancelliere della Repubblica federale di Germania, in qualità di rappresentante di un paese industrializzato, dico che dobbiamo ovviamente dare il nostro contributo, il contributo dei paesi industrializzati…”. Il suo appello non avrà successo, il vertice si concluderà senza un impegno condiviso sull’aumento massimo della temperatura.
Nel 2009 Merkel presiede il suo secondo governo, questa volta con i liberali della FDP. Tra le prime scelte del governo Merkel II c’è la revoca del piano di fuoriuscita dal nucleare assunta da Gerhard Schroeder nel 2001. Secondo la cancelliera, senza nucleare sarebbe difficile ridurre il consumo di carbone e quindi le emissioni di CO2. Alla decisione segue l’adozione del Energiekonzept. Ma la strategia durerà poco, un evento straordinario è destinato a mutare la politica energetica della cancelliera: l’incidente di Fukushima del 11 marzo 2011. Il 9 giugno, pronuncia in parlamento un lungo discorso dal titolo “Der Weg zur Energie der Zukunft” (La via per l’energia del futuro). “A Fukushima abbiamo dovuto prendere atto che neppure un paese ad alta tecnologia come il Giappone può controllare in modo sicuro i rischi dell’energia nucleare.
Chi se ne rende conto deve trarre le dovute conclusioni. Chiunque lo riconosca deve fare una nuova valutazione. Per conto mio l’ho fatta; perché il rischio residuo dell’energia nucleare può essere accettato solo da chi è convinto che non si verificherà secondo il giudizio umano. Ma se lo fa, le conseguenze in entrambe le dimensioni spaziale e temporale sono così devastanti e di così vasta portata che superano di gran lunga i rischi di tutte le altre fonti di energia…Fukushima ha cambiato il mio atteggiamento nei confronti dell’energia nucleare.”
Non usa mezzi termini la Merkel, a partire da sé stessa, in un discorso che andrebbe letto e riletto per l’onestà intellettuale e politica, le argomentazioni tecniche ed economiche, la visione strategica. Annuncia il piano per la fuoriuscita dal nucleare al 2022, ricorda che questo comporterà la riattivazione transitoria di centrali a carbone in vista di un imponente sviluppo delle rinnovabili, con obiettivo intermedio 35% di copertura della produzione elettrica al 2020, e dell’efficienza energetica, per conseguire un taglio delle emissioni del 40% al 2020 rispetto al 1990. Da quel 9 giugno del 2011 prende realmente forma quella Energiewende (transizione energetica) che vedrà progressivi provvedimenti e finanziamenti sulla via della neutralità climatica.
“Climate Chancellor” o “Auto Chancellor”?
Nel suo lungo percorso Angela Merkel non poteva sfuggire al complesso rapporto tra industria automobilistica e politica che caratterizza le vicende tedesche. Complesso non solo per le dimensioni economiche, occupazionali e tecnologiche del comparto, ma pure per gli aspetti di governance. Guidata da marchi come Volkswagen, Daimler e BMW, l’insieme della filiera tedesca genera un fatturato di circa 400 mld di euro, occupa oltre 800.000 persone e investe quasi 30 mld di euro l’anno in ricerca e sviluppo. In ossequio alla Mitbestimmung, il modello di relazione industriali basato sulla cogestione, i sindacati siedono nei Consigli di Sorveglianza delle società e, se ciò non bastasse, il Lander della Bassa Sassonia detiene l’11% delle azioni della VW che ha sede a Wolfburg, con il 20% del diritto di voto in Consiglio di Amministrazione. Come se la Regione Piemonte fosse stata, a suo tempo, azionista della FIAT. Si tratta di una situazione del tutto originale di relazioni politico-sindacali-industriali. Queste relazioni hanno generato anche sostegni elettorali da parte delle “big three” e un ricorrente fenomeno di “porte girevoli” tra ruoli di governo e incarichi societari. Del fenomeno non è rimasta indenne nemmeno Angela Merkel e la sua CDU, che peraltro si è sempre dimostrata fedele difensore della Deutschland Automobilindustrie, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “Auto Chancellor”, come peraltro il suo predecessore della SPD, Gerhard Schröder. Due vicende in particolare segnano questo rapporto: il Dieselgate del 2015 e la battaglia legale sulla messa al bando dei veicoli diesel del 2019. Difronte allo scandalo che coinvolse VW, responsabile di aver falsificato i valori di emissione di milioni di vetture, la risolutezza mostrata dalla Merkel in occasione di Fukushima scomparve come neve al sole. Gli intrecci tra industria automobilistica, governo e autorità di regolazione (KBA, che stabilisce i requisiti per la circolazione) tesi a evitare alla prima limiti di emissione più stringenti furono giudicati con toni durissimi: “fine della leggenda”, titolò lo Spiegel.
In una lunga deposizione alla Commissione d’Inchiesta del Parlamento, nel marzo del 2017, la Cancelliera dichiarò di aver appreso della condotta della VW “quando divenne di pubblico dominio”, cercando di allontanare da sé ogni accusa di eccessiva accondiscendenza nei confronti dell’industria automobilistica. L’enorme scandalo non produsse decisioni politiche rilevanti per ridurre le emissioni inquinanti mentre in numerose città il superamento dei limiti di legge, soprattutto per gli ossidi di azoto, era diventato un tema molto sentito e dibattuto.
A fronte di un tale indecisionismo federale l’iniziativa venne assunta dai cittadini e dalle autorità locali. Promossi da Deutsche Umwelthilfe (DUH), una organizzazione non governativa, e supportati dal team legale di ClientEarth, vennero intraprese numerose azioni legali contro i provvedimenti, giudicati inadeguati, dei Lander o delle autorità locali. Ad accogliere l’esposto della DUH nel luglio del 2017 sarà proprio il Tribunale amministrativo di Stoccarda, sede di Daimler e Porsche, e considerata la “capitale tedesca dell’inquinamento atmosferico”. La Corte dichiarò insufficiente il retrofitting delle auto diesel e ritenne “inevitabile” il divieto di circolazione per i veicoli a gasolio. La sentenza, contro cui il governo Federale farà ricorso, spinse molte autorità locali ad approvare piani di risanamento atmosferico che prevedevano il divieto di circolazione per i diesel a partire dal primo gennaio 2019. Di fronte alla possibilità che in mezza Germania venissero fermate le auto diesel la Cancelliera corse ai ripari convocando i sindaci di 31 città, decisa a evitare il divieto “a qualsiasi costo”. Propose così un fondo di un miliardo di euro, di cui 250 milioni versati delle case automobilistiche, a favore di misure antinquinamento delle città e scongiurando il blocco della circolazione su larga scala. Ancora una volta l’Auto-Nation aveva trovato il suo avvocato difensore.
Un bilancio evidence-based
Dopo sedici anni di cancellierato, preceduti da quattro come ministro dell’ambiente, possiamo fare un bilancio basato sui dati relativi alle emissioni climalteranti, i consumi e il mix energetico della Germania (grafici successivi, Fonte: Cleanenergywire).
Merkel ha certamente contribuito ad accelerare le dinamiche di riduzione delle emissioni con l’obiettivo del 40% al 2020, in particolare negli ultimi cinque anni, a fronte di una crescita economica ininterrotta con l’eccezione di due parentesi: la crisi finanziaria del 2009 e la pandemia del 2020.
Per quanto riguarda la produzione di energia elettrica, netto risulta il calo del nucleare a partire dalla decisione del 2011; pure il carbone è calato ma non altrettanto la lignite. Su questo lento phase-out dal più “sporco” dei combustibili fossili si sono concentrate molte critiche, fino a prefigurare che i target climatici non potessero essere raggiunti. Cresce il ricorso al gas e anche su questo versante sono piovute le critiche, come per l’accordo con Putin sul gasdotto Nord Stream 2. Imponente lo sviluppo delle rinnovabili il cui contributo al mix energetico si è moltiplicato per 5. L’obiettivo di coprire il 35% della produzione elettrica con rinnovabili al 2020 è stato raggiunto e superato.
Misurata sugli impegni europei fissati con la Effort Sharing Decision del 2009, l’eredità della Cancelliera appare meno brillante. L’ultimo rapporto dell’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) mostra (nella figura) che la Germania non raggiunge al 2020 due dei quattro target: la riduzione dei gas serra e la riduzione dei consumi finali di energia, confermando così le critiche rispetto alla lentezza di fuoriuscita dai combustibili fossili.
In attesa della contabilità ufficiale dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, AgoràEnergiewende ha stimato che le emissioni di gas serra, escluse dal meccanismo dell’ETS, superino del 10% il target previsto. Stima confermata dalla dichiarazione del neoministro per l’economia Robert Habeck che ha ammesso che il paese non rispetterà gli obiettivi per il 2021 e nemmeno per il 2022. Trasporti e costruzioni sarebbero in forte ritardo sulla tabella di marcia e il ministro ha annunciato un nuovo Piano per la Protezione Climatica. Sempre secondo AgoràEnergiewende il costo per compensare il disavanzo nei diritti di emissione non ETS potrebbe variare tra i 600 e 1.200 milioni di euro nel 2021. Una eredità pesante per il nuovo governo dell’alleanza “semaforo” (Verdi, FDP, SPD) che infatti l’11 gennaio ha presentato il primo pacchetto di misure (Oster & Sommerpaket, tra Pasqua e l’estate…) partendo dal riconoscimento che “Le precedenti misure di protezione del clima sono inadeguate in tutti i settori” e prevedendo una accelerazione su tutti i fronti: efficienza, elettrificazione, rinnovabili, con esplicito intento di fare della Germania la leader della transizione.
Un lascito climatico ingombrante
Sul piano tecnologico e industriale le case automobilistiche tedesche guidano la “rivoluzione” elettrica e la Germania si conferma il primo mercato europeo per il fotovoltaico (cinque volte quello italiano) e lo storage, il secondo per l’installazione di nuova potenza eolica. Tuttavia, il paese si trova in ritardo rispetto agli impegni di protezione climatica assunti in sede europea e alle prese con due fuoriuscite contemporanee molto ardue: nucleare e carbone.
Visto dall’Italia rimane lo stupore e l’ammirazione per un paese in cui la transizione energetica e le politiche climatiche sono al centro del dibattito politico, al tal punto da diventare uno dei fattori decisivi per la nascita del nuovo governo post-Merkel. Formazione scientifica, pragmatismo e abilità diplomatiche hanno trovato in Angela Merkel un equilibrio unico nel panorama europeo. Ora il nuovo governo “semaforo” (SPD-Verdi-Liberali) ha alzato nuovamente l’asticella, anticipando target e scadenze. “Climate Chancellor” o “Auto Chancellor”, quale soprannome toccherà a Olaf Sholz?
Testo di Stefano Fracasso, con contributi di Sylvie Coyaud.
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