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Fatti o valori: cosa conta nella percezione del rischio climatico? (I parte)

Nell’estate del crollo dei ghiacci della Marmolada, della grande siccità, degli incendi e dell’appello della comunità scientifica italiana perché la politica si prenda carico del cambiamento climatico, rimane la sensazione di una sproporzione tra l’enormità della questione e la relativa scarsa reattività del corpo sociale e politico. La distanza, insomma, tra comunicazione e partecipazione, conoscenza e mobilitazione. Quasi che non bastassero gli enormi interessi in gioco per spiegare l’in-azione climatica, l’inerzia politica.

Natura o cultura, psicologia o istituzioni?

Alcuni anni fa Dan Gilbert, affermato professore di psicologia ad Harvard e columnist del LA Times, sostenne che la mente umana era poco attrezzata per rispondere alla minaccia del riscaldamento globale. Secondo Gilbert il cervello si è evoluto per rispondere a minacce che hanno quattro caratteristiche che il global warming non presenta.

In primo luogo il riscaldamento globale “non ha i baffi”. Non è cioè associato a un’azione intenzionale di una o più persone e il nostro cervello è specializzato nel pensare e decifrare minacce “personalizzabili”.

Il secondo motivo è che il global warming non viola la nostra sensibilità morale, almeno non direttamente. Non ci induce pensieri ripugnanti, inaccettabili, indecenti e le emozioni morali sono un forte allarme per il cervello.

Il terzo motivo è che se vediamo una minaccia nel global warming la vediamo “per il futuro, non per il pomeriggio”. Il global warming mancherebbe quindi di immanenza.

Infine il global warming è troppo lento per essere avvertito come una minaccia che spinge all’azione. Secondo Gilbert, e altri studiosi, “l’inazione climatica”, troverebbe radici nella stessa natura dei processi cognitivi prodotti dall’evoluzione.

 

Robert Gifford, docente di psicologia e studi ambientali alla Victoria University, ha invece individuato sette barriere psicologiche all’azione rispetto ai cambiamenti climatici, che ha chiamato i “draghi dell’inazione”:

– cognizione limitata sul problema

– visioni ideologiche del mondo che tendono a precludere atteggiamenti pro-ambientali

– confronti con altre persone chiave

– costi irrecuperabili e slancio comportamentale

– discrezionalità verso esperti e autorità

– rischi percepiti di cambiamento

– cambiamento comportamentale positivo ma inadeguato.

Gifford, che dirige un laboratorio che indaga sistematicamente questi “draghi”, è dubbioso sul fatto che rimuovere tutte le barriere sia comunque sufficiente a spingere all’azione.

Recentemente, Quentin Atkinson and Jennifer Jacquet, rispettivamente docente di psicologia all’Università di Auckland e ricercatore del Dipartimento di studi ambientale della New York University, hanno replicato alle tesi di Gilbert e Gifford (e di altri). Secondo i due autori l’inazione sarebbe un fenomeno eminentemente culturale e politico e le asserzioni sulle barriere psicologiche non terrebbero conto della variabilità interna alla popolazione, e quindi dei diversi atteggiamenti presenti nel corpo sociale. La chiave psicologica-evolutiva sarebbe quindi frutto di una eccessiva semplificazione dei risultati di diverse ricerche, con una sovrastima dell’intenzionalità individuale rispetto ai fattori culturali e politici che sono elementi importanti nei fenomeni collettivi umani.

Tra questi fattori, Atkinson e Jacquet includono anche il ruolo delle grandi tradizioni di pensiero politico, per esempio il liberismo o la socialdemocrazia, che non sono proiezioni della natura psicologica degli individui ma il prodotto dell’evoluzione culturale. “È ora di sfidare l’idea che non siamo progettati per risolvere il cambiamento climatico, e identificare invece i cambiamenti culturali necessari per garantire che lo facciamo”, concludono nel loro saggio. La razionalizzazione della natura psicologica dell’inazione, denunciano infine i due autori, potrebbe anzi diventare una giustificazione per le politiche dei frenatori, un rischio tutt’altro che remoto.

 

 

Fatti o identità?

 Eppure, nonostante l’alfabetizzazione scientifica attuale non abbia precedenti nella storia dell’uomo, i nostri tempi sembrano in preda a ondate di profondo scetticismo, se non di vero e proprio negazionismo. Dai novax ai no-climatechange il passo è breve. Perché un così profondo disaccordo? Manca la conoscenza? Mancano le informazioni?

I sostenitori della “tesi della cognizione culturale” (Cultural Cognition Thesis) ritengono non sia un problema di informazioni, ma delle radici valoriali che vengono messe in gioco.

“I valori vengono prima dei fatti”, sostiene Dan M.Kahan, docente alla Yale Law School: le valutazioni sul cambiamento climatico sono derivate delle visioni del mondo, non delle informazioni possedute. Secondo questa corrente di pensiero, le persone elaborano le informazioni in modo congruente alla loro identità e percepiscono il mondo in modo da rafforzare o proteggere i loro valori. Le convinzioni che le persone manifestano sono funzionali innanzitutto a consolidare il loro radicamento valoriale, a confermare la loro appartenenza a questo o quel gruppo sociale. Anzi, più informazioni scientifiche potrebbero essere un boomerang (Hart & Nisbet) , favorendo la polarizzazione delle posizioni (Kahn e altri 2011, Kahn e altri 2012).

Sander van der Linden, direttore del Social Decision-Making Laboratory di Cambridge, non la pensa così. Pur riconoscendo che le caratteristiche psicologiche del cambiamento climatico rappresentano un esempio da manuale di razionalità limitata” (Sander van der Linden e altri 2017), van der Linden sottolinea che la percezione del rischio del cambiamento climatico dipende da più fattori, non solo di natura cognitiva. Il contesto socio-culturale e le esperienze personali giocano un ruolo importante come fattore predittivo della percezione del rischio climatico (van der Linden 2015), e la diffusione di dati statistici unitamente alla sottolineatura dell’accordo della comunità scientifica aumentano questa consapevolezza.

Una tesi ampiamente confermata da un recente articolo pubblicato sul Journal of Environmental Psychology dall’emblematico titolo “Truth over Identity?”, una multianalisi statistica basata sulla European Social Survey (ESS), un sondaggio che ha interessato 21 paesi europei più Russia e Israele, con oltre 44.000 soggetti intervistati, con un modulo specifico sul cambiamento climatico.

L’analisi del gruppo di ricercatori delle Università di Amsterdam e Vienna ha sottoposto a verifica la correlazione tra consapevolezza del cambiamento climatico e orientamenti valoriali, politici, culturali, concludendo che i fattori cognitivi (secondo la CCT, Cultural Cognition Thesis) sono deboli predittori degli atteggiamenti nei confronti del climate change. Un ruolo positivo viene invece mostrato dall’istruzione, in grado di mitigare la polarizzazione ideologica e i suoi effetti perversi. Pur tenendo conto che l’analisi fa riferimento a dati raccolti in periodo pre-Covid (2016), è utile segnalare che la percentuale di coloro che non credevano all’influenza umana sul cambiamento climatico andava dal 16,2% in Russia a meno del 5% in Spagna, in Italia risultava del 6.4%, una quota sorprendentemente (ma non troppo) simile quella dei negazionisti del Covid (indagine Observa-Corriere Innovazione).

Come nel caso del Covid, i negazionisti sono meno di quanti si creda, seppure la loro presenza sui social e media tradizionali induca a pensare il contrario. Una rappresentazione che porta a una distorta percezione (ossia ad una sottovalutazione) del reale sostegno alle politiche sul cambiamento climatico, come ha mostrato una recente indagine sugli Stati Uniti.

La partita tra scienze cognitive e scienze sociali per comprendere rappresentazioni, valutazioni e azioni nei confronti dei cambiamenti climatici è ancora aperta. Potrebbe essere lo studio dei comportamenti in campo economico e politico a darci una mano per chiarire meglio i meccanismi? Questo tema sarà affrontato nella seconda parte di questo post.

Testo di Stefano Fracasso

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2 Responses to “Fatti o valori: cosa conta nella percezione del rischio climatico? (I parte)”

  1. […] e as proporções reação fraca Do corpo social e político “Enquanto você lê o blog Das Alterações Climáticasdirigido por Stefano Caserini (Membro do Comitê de Votação […]

  2. […] della questione e la relativa scarsa reattività del corpo sociale e politico” si legge sul blog Climalteranti, diretto da Stefano Caserini (membro del comitato Scienza al […]

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