Una finestra che si sta chiudendo
A fine ottobre è stato presentato l’Emissions gap report dell’UNEP, il Programma Ambientale delle Nazioni Unite. Quali sono i principali elementi di questo rapporto e a che punto siamo nell’Unione Europea e in Italia?
Il rapporto valuta l’efficacia delle azioni intraprese finora, a livello globale, nel ridurre le emissioni di gas ad effetto serra. Il messaggio principale è riassunto bene nell’immagine di copertina: una finestra che si sta chiudendo – simbolo del poco tempo rimasto a disposizione – raggiungibile con una scala traballante, per indicare la difficoltà della sfida.
Perché la finestra si sta chiudendo?
Partiamo dall’inizio. Nel 2015 a Parigi, praticamente tutti i paesi del mondo si sono impegnati a ridurre le emissioni di origine antropica in modo tale da mantenere l’aumento della temperatura globale a fine secolo ben al di sotto dei 2oC rispetto all’epoca preindustriale, cercando anzi di non superare 1.5oC. Per raggiungere questo obiettivo possiamo riconoscere i seguenti tipi di impegni da parte dei paesi:
- Impegni di lungo termine, intorno al 2050 o 2060. Si tratta di impegni a volte generici, ma importanti per indicare la direzione.
- Impegni di medio termine, intorno al 2030 (i cosiddetti Nationally Determined Contributions, o NDC), che ogni paese deve periodicamente comunicare alle Nazioni Unite; per questi impegni esistono protocolli di rendicontazione periodica, per valutare in modo trasparente il raggiungimento o meno degli obiettivi e l’implementazione di adeguate politiche nazionali.
- Attuazione di politiche nazionali di riduzione delle emissioni o di modifica del sistema energetico, e rendicontazione delle emissioni alle Nazioni Unite.
Il rapporto UNEP ci dice a che punto siamo in questo processo. In altre parole, qual è la distanza tra parole e azioni.
Come siamo messi a livello globale?
Partiamo dalle emissioni storiche. A livello globale le emissioni hanno smesso di crescere rapidamente come hanno fatto negli ultimi due decenni, e questa è una buona notizia. Gli ultimi due-tre anni sono stati molto influenzati dal COVID, con le emissioni del 2020 di poco inferiori a quelle del 2019, ma già nel 2021 hanno ripreso e leggermente superato i livelli del 2019 (una differenza, comunque, all’interno dell’incertezza della stima). Un settore particolarmente incerto è il LULUCF (uso del suolo e foreste): a causa di diversi approcci metodologici, i modelli globali indicano emissioni nette per questo settore, mentre sommando le stime degli Stati si arriva ad assorbimento netto di CO2 (Figura 1). La discrepanza è importante, superiore alle emissioni totali degli Stati Uniti, e sono stati proposti approcci per riconciliare le stime.
Figura 1. Emissioni globali 1990–2021: confronto tra diversi approcci di stima per il settore uso del suolo e le foreste (fonte UNEP).
Nel 2020, otto grandi emettitori hanno contribuito per oltre il 55% alle emissioni globali di gas serra (Figura 2). Se la Cina guida la classifica delle emissioni totali, gli Stati Uniti guidano quella delle emissioni pro-capite.
Riguardo alle emissioni cumulate di CO2 da combustibili fossili dal 1850 al 2019, il rapporto evidenzia come il contributo degli Stati Uniti ed Europa, pari rispettivamente al 25% e 17%, è ancora superiore a quello della Cina (13%) e Russia (7%), per non dire di India (3%), Brasile e Indonesia (1%) o di tutti i paesi meno sviluppati, che nel complesso hanno contribuito solo per lo 0,5%.
Figura 2. Emissioni degli otto più grandi emettitori di gas serra, totali (sopra) e pro-capite (sotto), nel 2020 e nel periodo 1990–2021 (fonte UNEP).
Quando le emissioni nazionali sono stimate in base al consumo piuttosto che in base al territorio (come considerato in Figura 2), le emissioni tendono ad essere più elevate nei paesi ad alto reddito e inferiori nei paesi che sono esportatori netti di beni. Le emissioni incorporate nei prodotti commercializzati rappresentano circa ¼ delle emissioni globali di CO2. I dati sulle emissioni in base al consumo per singoli paesi si possono trovare qui.
Sugli impegni al 2030, quelli che in teoria dovrebbero essere associati a legislazioni concrete, a livello globale ancora non ci siamo. È pur vero che sono stati fatti dei passi in avanti: se nel 2010 questi impegni ci avrebbero portato a ben oltre i 3oC di aumento delle temperature a fine secolo, oggi con l’effettiva ottemperanza a tutti gli ultimi impegni potremmo arrivare a circa 2.4-2.6oC (Figura 3). Meglio di prima, ma ancora non sufficiente per restare ben al di sotto i 2oC, come concordato nel 2015 con l’accordo di Parigi. Ovviamente gli impegni devono essere rafforzati per cercare di stare entro un aumento di 1.5°C. Vale la pena sottolineare che lo scarto di mezzo grado (tra gli scenari IPCC 1.5°C e 2°C) implica un aumento significativo degli impatti della crisi climatica a livello globale.
Guardando allo scenario delle politiche attuali, siamo ancora più indietro. In altre parole, non sempre agli impegni presi per il 2030 corrispondono azioni politiche effettivamente messe in atto per rispettare gli impegni stessi. Considerando solo queste ultime, anziché a 2.4-2.6oC arriveremo a 2.8oC.
Per dare un’idea dello sforzo aggiuntivo necessario, con gli ultimi impegni le emissioni globali nel 2030 diminuirebbero solo del 5-10% rispetto alle politiche attuali. Per raggiungere gli obiettivi di Parigi, le emissioni globali dovrebbero invece essere ridotte del 30-45% nel 2030.
Figura 3. Emissioni globali di gas a effetto serra in diversi scenari, con le temperature corrispondenti, e il ‘gap’ nel 2030 (frecce rosse verticali), ovvero la distanza tra impegni dei paesi e le emissioni che sarebbero necessarie per raggiungere l’obiettivo di Parigi (elaborazione dati UNEP).
Sugli impegni dei paesi di lungo periodo, con orizzonte temporale al 2050, le strategie di decarbonizzazione finora presentate possono essere definite, con un sforzo di ottimismo, quasi in linea con l’obiettivo di lungo termine dell’Accordo di Parigi. Ma, come detto sopra, questi impegni sono piuttosto vaghi e, spesso, non legalmente vincolanti.
Complessivamente, sebbene siano stati fatti dei passi nella giusta direzione, a livello globale i progressi sono troppo pochi e troppo lenti. Più aspettiamo, più la necessaria trasformazione delle nostre società dovrà essere rapida e, quindi, difficile. Ogni azione conta, perché ogni frazione di grado conta: per le comunità vulnerabili, per le specie e gli ecosistemi e per ognuno di noi.
Cosa potrebbero fare i paesi a seguito di questo rapporto?
Anzitutto, prendere atto della grande distanza tra parole e azioni a livello globale, fotografata dal rapporto UNEP, e dai diversi rapporti pubblicati recentemente, come l’NDC Synthesis Report, lo State of Climate Action 2022, il rapporto WMO, il Word Energy Outlook 2022. Il quadro che emerge è chiaro: quello che stiamo facendo, in termini di riduzioni delle emissioni di gas serra a livello globale, non è sufficiente per raggiungere gli obiettivi di Parigi. Questa presa d’atto è anche lo scopo del cosiddetto “Global stocktake”, il processo nell’ambito dell’accordo di Parigi pensato per verificare, ogni cinque anni, la distanza delle azioni di mitigazione intraprese e gli impegni globali. Un reality-check, insomma, che si concluderà nel 2023. Al quale dovranno poi seguire (entro il 2025) impegni più ambiziosi, e soprattutto azioni di mitigazione più efficaci per accelerare la riduzione delle emissioni nel prossimo futuro.
A che punto siamo nell’Unione Europea e in Italia?
Come emerge dal recente EU Climate Action Progress Report, le emissioni nette dell’Unione Europea nel 2021 sono state del 30% inferiori ai livelli del 1990. Nonostante le emissioni siano aumentate del 4,8% nel 2021 rispetto al livello eccezionalmente basso (causa pandemia) del 2020, sono rimaste del 4% al di sotto dei livelli del 2019. Sebbene nel complesso l’Unione Europea rimanga sulla buona strada per realizzare i suoi obiettivi climatici, sono necessarie ulteriori azioni. A tale fine, nell’ambito del Green Deal, è attualmente in discussione un pacchetto di politiche proposte dalla Commissione Europea in materia di clima, energia e trasporti (Fit-for-55). Il Fit-for-55, che rappresenta l’obiettivo di riduzione dell’Unione Europea al 2030 per l’Accordo di Parigi, prevede la riduzione delle emissioni di gas serra del 55% a livello europeo rispetto all’anno 1990, includendo anche gli assorbimenti del settore LULUCF. Questo pacchetto è coerente con l’obiettivo di lungo termine che si è data l’Unione europea nell’ambito dell’Accordo di Parigi, cioè di raggiungere la neutralità di gas serra entro il 2050.
In Italia, nel 2020 le emissioni di gas serra sono diminuite del 27% rispetto al 1990, grazie alla crescita negli ultimi anni della produzione di energia da fonti rinnovabili (eolico e solare fotovoltaico in particolare), all’incremento dell’efficienza energetica nei settori industriali e alla riduzione dell’uso del carbone. Da considerare comunque anche la congiuntura economica e sociale dell’anno 2020, causata dalla crisi pandemica.
Inoltre, l’anno 2020 (rendicontato nel 2022) è un momento importante di verifica, per l’Italia e l’Unione Europea, perché chiude il secondo Periodo di Kyoto (2013-2020). A tale riguardo occorre sottolineare come sia l’Italia che l’Unione Europea abbiano ridotto le emissioni di gas serra molto più di quanto previsto dal Protocollo di Kyoto e dal Pacchetto europeo clima-energia 2020.
Testo di Giacomo Grassi (co-autore del rapporto UNEP) e Marina Vitullo, con contributi di Stefano Caserini, Mario Grosso e Simone Casadei
4 responses so far
Un commento alla COP27 in diretta tra Greta Thunberg, Naomi Klein
https://membership.theguardian.com/event/greta-thunberg-in-conversation-with-naomi-klein-461706706187?INTCMP=gdnwb_copts_merchhgh_live_mixedonline2
[…] dei Cittadini di Milano è particolarmente urgente. Infatti, come riportato dall’Emissions gap report dell’UNEP, il Programma Ambientale delle Nazioni Unite pubblicato lo scorso ottobre, la finestra […]
La popolazione mondiale negli ultimi 70 anni è triplicata. Non si tratta di una variabile indipendente sulla crescita dei gas serra che continuano ad aunentare nonostante i look down e gli impegni degli stati di diminuire le emissioni. Questo argomento sembra essere un tabù . Senza un impegno in questa direzione a nulla varraanno i sacrifici economici che stiamo mettendo in atto. Possibile che nessuno ne parli e lanci delle proposte. Questo è l’argomento centrale. Lo so che qualcuno è già pronto a sostenere che un americano consuma 10 volte di più di un abitante del Malawi, ma in Europa ed in america scienza e tecnologia hanno fatto crescere le produzioni bel al di là delle necessità. E’ ora che anche l’Africa, col nostro aiuto (inteso come educazione) si alzi in piedi con orgoglio e dimostri quello che sa fare.
[…] Il report dell’Università di Oxford, esplorando scenari compatibili con gli obiettivi dell’accordo di Parigi, individua la necessità di ulteriore crescita delle CDR forestali, pari a circa 1-2 Gt CO2/anno per il 2030 e 2-4 Gt CO2/anno per il 2050, in aggiunta agli attuali 2 Gt CO2/anno (vedasi tabella 8.1 del rapporto). Questi valori sono più alti di quanto previsto negli impegni attuali dei paesi formulati nei rispettivi NDC (Nationally Determined Contributions) e nelle strategie climatiche di lungo termine. Sulla base delle informazioni disponibili (spesso vaghe o non ben quantificabili), tali impegni corrisponderebbero ad ulteriori CDR forestali pari a 0.1-0.7 Gt CO2/anno nel 2030 e a 0.9-1.7 Gt CO2/anno nel 2050. Emerge quindi un “gap” tra gli assorbimenti forestali pianificati dai paesi e quelli necessari per raggiungere gli obiettivi di Parigi, che contribuisce all’“emissions gap” complessivo già discusso in questo post. […]