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Il piccolo avanzamento alla COP27 e il futuro delle COP

A mente fredda e dopo aver valutato i risultati, un’analisi della COP27 e sull’importanza del negoziato UNFCCC.

L’analisi dei risultati della COP27 che si è svolta a Sharm el Sheikh dal 6 al 20 novembre 2022 è al solito complessa e laboriosa. Le lunghe e dettagliate analisi dell’IISD, di Carbon Brief, i resoconti giornalieri dei delegati dell’Italian Climate Network e della newsletter Areale di  Ferdinando Cotugno hanno mostrato quanto lavoro c’è stato su molti tasselli dell’intelaiatura del negoziato mondiale sul clima.

Il risultato finale sono 27 decisioni di COP27 (la Conferenza delle Parti dell’UNFCCC), 9 decisioni del CMP17 (il meeting delle Parti del Protocollo di Kyoto) e 24 decisioni del CMA4 (il meeting delle Parti dell’Accordo di Parigi).

I risultati

La decisione più importante, e che ha trovato risalto nei media, è l’accordo per l’istituzione di un fondo per il “Loss and damage”. La questione di fondo è “chi paga per i danni causati dal cambiamento climatico?”: è una questione vecchia, che sta causando crescenti tensioni tra paesi ricchi e paesi poveri. I paesi ricchi hanno definito, nell’ambito della finanza per il clima, l’obiettivo di 100 miliardi di dollari annui entro il 2020, per supportare i paesi più vulnerabili nelle attività di mitigazione e adattamento, ma l’obiettivo non è stato raggiunto.

Oltre a questo, i paesi più vulnerabili chiedono da tempo compensazioni economiche per le perdite ed i danni che stanno subendo a causa dei cambiamenti climatici, anche in considerazione della responsabilità storica di tali cambiamenti. La decisione finale della COP27 istituisce un fondo a tale scopo (anche grazie alla proposta UE, negli ultimi giorni della COP27). Pur se concettualmente questa decisione comporta un importante cambio di prospettiva – la crisi climatica non è domani, è già qui e ora – , ed è un passo storico verso la “giustizia climatica”, la decisione lascia la definizione e l’implementazione del fondo ai negoziati tecnici al 2023, prevedendo l’adozione nella COP28. Sarà quindi cruciale definire gli elementi di questo fondo: chi riceverà questi fondi? Quali saranno i donatori? Ci sarà la Cina? Quali saranno i criteri per l’assegnazione? Come saranno assicurati il coordinamento e la complementarietà con i fondi già esistenti?

L’analisi dei risultati è più faticosa del solito, perché alcuni argomenti sono molto tecnici, e non è facile capire quanto le decisioni prese siano importanti, quanto sono un avanzamento importante o un compromesso che ritarda ulteriormente l’azione mondiale sul clima. Ad esempio, ci sono stati molti progressi sugli aspetti operativi del mercato del carbonio definito dall’Art. 6 dell’Accordo di Parigi, le procedure e gli strumenti necessari affinché lo scambio dei crediti di emissioni possa realmente avvenire, ed è stato fatto molto lavoro, ad esempio su quali emissioni conteggiare (ad esempio emissioni evitate o anche rimozione di CO2) o come “aggiustare” i registri nazionali per evitare doppi conteggi delle riduzioni. Chi ha seguito il negoziato e i tanti side event sul tema ha avvertito la volontà di concretezza, di rendere operativo il nuovo mercato del carbonio in tempi brevi, molto più brevi di quanto è successo con il Protocollo di Kyoto, nonostante la complessità di gestire un mercato del carbonio congruente con gli NDC nazionali sia enorme. Restano ancora da definire, però, importanti elementi: capire se gli ITMO (Internationally transferred mitigation outcomes) includono anche le emissioni evitate, definire il processo autorizzativo di tale quantità, il timing per la trasmissione dei dati, e la definizione di tabelle per il reporting delle informazioni.

La COP27 era stata descritta come una COP di implementazione; come scritto molte volte, non era legittimo aspettarsi dalla COP egiziana uno sconvolgimento nella lotta al cambiamento climatico. L’Accordo di Parigi è in fase di attuazione, con un progressivo rilancio degli NDC (contributi definiti a livello nazionale), ma rimane una generale insufficienza degli obiettivi degli NDC, come mostra anche l’ultima analisi del Carbon Action Tracker.

Presente e futuro delle COP

Per chi da anni segue le COP è evidente come siano cambiate: dopo un paio di decenni di dibattito su come definire gli obiettivi e le rispettive responsabilità, sono diventati luoghi in cui valutare i progressi, migliorare la trasparenza e spingere i diversi paesi ad aumentare l’ambizione nella riduzione delle emissioni.

La maggiore attenzione all’implementazione porta con sé una maggiore apertura alla società civile (tra cui i giovani, grande fonte di energia e ispirazione) e al mondo produttivo. Aprire ai vari soggetti significa coinvolgere chi poi deve cambiare le cose, e quindi è un bene, ma si può rischiare anche di dare spazio a chi vuole rallentare il cambiamento. E poi, a causa di questa trasformazione, nelle COP assume sempre più spazio l’esposizione delle azioni dei diversi paesi, una sorta di fiera molto partecipata e con padiglioni eccessivamente sfarzosi, con molte cose interessanti, molto utile networking e inevitabilmente un po’ di greenwashing.

A chi dice che le COP non servano a nulla, si può ricordare che gli accordi non nascono e muoiono in una sola COP: sono richieste prima molte COP per definire l’accordo, e altrettante servono poi per attuarlo davvero.

In fondo il negoziato UNFCCC ha prodotto dei risultati, seppur deboli e insoddisfacenti. Come mostra la figura qui a fianco, c’è differenza tra la rotta prima e dopo l’accordo di Parigi (rotte rossa e arancione). C’è ancora molta, troppa distanza tra promesse e azioni, ma le COP hanno comunque contribuito ad innescare un cambiamento che farà probabilmente evitare gli scenari climatici peggiori. E se la politica ha già innescato un cambiamento, significa che può farlo ancora. Le COP sono e resteranno ancora momenti importanti per catalizzare l’attenzione della politica e della società su una crisi epocale.

Mentre molti criticano le COP, pochi avanzano proposte su cosa dovrebbe cambiare, come potrebbero essere più incisive. Alla fine, è questo l’unico spazio multilaterale condiviso nell’azione globale sul clima, e in cui i paesi più vulnerabili possono chiedere risorse e sostegno nell’affrontare la crisi climatica.

È legittimo domandarsi se e come le COP possano diventare più efficienti. Ci sono ampi margini di miglioramento. Il multilateralismo appare necessario (in una sfida globale, bisogna coinvolgere tutti) ma c’è un prezzo da pagare: la lentezza decisionale.

Dato che il tempo stringe, è stato proposto di prendere le decisioni principali ai summit G20, e focalizzare le COP maggiormente sull’azione multilaterale. Al di là della scarsa trasparenza di questi summit, il 90% degli Stati, dove abita il 35% della popolazione mondiale, non partecipa al G20, e sarebbe un passo indietro dal punto di vista democratico assumerlo come luogo decisionale.

Se da un lato l’emergenza climatica potrebbe giustificare – in nome della celerità delle risposte – un arretramento del multilateralismo, è pericoloso togliere potere decisionale a centinaia di milioni di abitanti dei paesi più poveri, non rappresentati nel G20. Non possiamo permetterci che il negoziato climatico diventi di una parte. Come ha detto al termine di un incontro con i giovani Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione Europea e voce della UE alla COP, egli stesso deluso dall’esito finale della COP, “Coltivate bene l’arte di non essere d’accordo”.

O la sfida climatica diventa sfida di tutti, oppure sarà una sfida persa, per tutti. Soprattutto per i più deboli.

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Testo di Stefano Caserini e Giacomo Grassi, con contributi di Simone Casadei e Marina Vitullo

2 responses so far

2 Responses to “Il piccolo avanzamento alla COP27 e il futuro delle COP”

  1. ALESSANDRO SARAGOSAon Dic 16th 2022 at 08:46

    Volevo segnalare questa ricerca, che indica come anche si restasse sotto ai +1,5°C, cosa ormai quasi esclusa, a meno di CCS dall’atmosfera, coste e piccole isole sarebbero gravemente danneggiate dalla risalita dei mari.
    Inoltre la fusione dei ghiacci, assorbendo calore dall’atmosfera, maschererebbe gli effetti dell’ulteriore immissione di gas serra, così che avremmo l’impressione di rispettare i limiti, mentre la situazione in realtà peggiorerebbe dal punto di vista della risalita dei mari, visto che sono loro a far sciogliere i ghiacci antartici.
    Insomma, se non ho capito male, aver posto un limite di temperatura, invece che di concentrazione di CO2 in aria, non è stata una grande idea.

    Paris Agreement temperature targets may worsen climate injustice for many island states
    Justice-focused policies are needed to minimize impacts of sea-level rise, which will be borne disproportionately by island nations
    Date:
    December 13, 2022
    Source:
    University of Massachusetts Amherst
    Summary:
    While the world focuses on limiting the rise in global temperature to 1.5 or 2 degrees Celsius over the preindustrial average, increasing meltwater from ice sheets presents an existential threat to the viability of island and coastal nations throughout the world. Now, research shows that even the most optimistic temperature targets can lead to catastrophic sea-level rise, which has already begun and will affect low-lying nations for generations to come.
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    While the world focuses on limiting the rise in global temperature to 1.5 or 2 degrees Celsius over the preindustrial average, increasing meltwater from ice sheets presents an existential threat to the viability of island and coastal nations throughout the world. Now, research from the University of Massachusetts Amherst, recently published in the journal Earth’s Future, shows that even the most optimistic temperature targets can lead to catastrophic sea-level rise, which has already begun and will affect low-lying nations for generations to come.
    While rising temperatures are having many deleterious effects on global ecosystems, economies and human wellbeing, an interdisciplinary team of researchers at the University of Massachusetts emphasize that temperature alone is not a sufficient basis for climate policy. The team focused on the Antarctic Ice Sheet, which holds the world’s largest store of freshwater — enough to raise the oceans by 58 meters, and which is melting at an accelerating pace. But the physics of the ice sheet itself also contribute to its liquification, which will continue for millennia, even if global carbon emissions are reigned in. And because melting ice can slow rising temperatures in the atmosphere, it is conceivable that the melting ice sheet could help maintain what is commonly considered a “safe” level of warming, 1.5 degrees, say, while actually allowing for devastating sea-level rise. Furthermore, all that Antarctic meltwater won’t cause the same amount of sea-level rise everywhere in the world. Some areas in the Caribbean Sea as well as the Indian and Pacific Oceans will experience a disproportionate share of the sea-level rise from Antarctic ice — up to 33% greater than the global average.
    This gap between temperature and sea level has immediate repercussions for many places throughout the world, and especially for the Alliance of Small Island States (AOSIS), an organization of 39 island and coastal nations across the globe. Indeed, the paper’s authors show that, though AOSIS countries have emitted a negligible portion of the planet’s anthropogenic greenhouse gasses, they are bearing the brunt of the world’s rising waters.
    “Temperature is not the only way to track global climate change,” says Shaina Sadai, the paper’s lead author, who completed this research as part of her doctoral studies in geosciences at UMass Amherst, “but it became the iconic metric in the Paris Agreement. Knowing that Antarctic melt can delay temperature rise while increasing sea levels, I wondered what it meant for climate justice. But climate science alone can’t answer that question of justice.”
    Enter Regine Spector, professor of political science at UMass Amherst and one of the paper’s senior authors. Spector brought expertise in political power dynamics and the history of global inequality to the team’s work to demonstrate how politically powerful countries influence global climate negotiations and continue historic patterns of colonial exploitation experienced by AOSIS nations. “Focusing on temperature misses other real consequences of climate change, such as sea-level rise, that are being felt all over the world today,” says Spector.
    The team demonstrates that an interdisciplinary approach to research, which centers the experiences of AOSIS countries, can be used to better understand climate justice impacts of international negotiations and the relationships between science, policy and political power. “We need to listen to the voices of the people facing the vanguard of climate change,” say Sadai and Spector. They hope this research can serve as a model for future studies.
    This research was funded by the National Science Foundation and NASA.
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    Story Source:
    Materials provided by University of Massachusetts Amherst. Note: Content may be edited for style and length.
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    Journal Reference:
    1. S. Sadai, R. A. Spector, R. DeConto, N. Gomez. The Paris Agreement and Climate Justice: Inequitable Impacts of Sea Level Rise Associated With Temperature Targets.

    Con +1,5°C di aumento globale siamo a posto? Noi sì, ma le piccole isole saranno a mollo…
    Il mondo nel 2015 con l’Accordo di Parigi decise di limitare la crescita delle temperature globali, in una soglia fra 1,5 e 2°C. Per adesso non stiamo rispettando neanche quella, e ormai le possibilità che ci si fermi a +1,5°C sono scarse, ma avverte ora Shaina Sadai, climatologo dell’University of Massachusetts, che anche se ci si riuscisse sarebbe comunque un disastro per le piccole isole. Infatti quelle parti del mondo stanno già soffrendo per la risalita del livello dei mari, dovuta principalmente alla fusione della calotta groenlandese e antartica. Anche se si restasse a 1,5°C quella fusione continuerà per secoli, sommergendo via via le piccole isole, e c’è di peggio: la fusione del ghiaccio assorbe calore dall’atmosfera, per cui terrebbe le temperature costanti anche se queste in realtà continua l’accumulo di calore del pianeta. Insomma, avremmo l’impressione di aver risolto il problema, mentre in realtà staremmo destabilizzando la criosfera, mettendo le basi per decine di metri di risalita dei mari. Occorre trovare altri parametri più diretti, come la quantità di gas serra massima da immettere nell’atmosfera, per evitare di autoingannarci e distruggere migliaia di piccole isole.
    Earth’s Future, 2022; 10 (12) DOI: 10.1029/2022EF002940

  2. Stefano Caserinion Dic 26th 2022 at 13:22

    Qui è possibile vedere la registrazione dell’evento CMCC sulla COP27.
    https://www.cmcc.it/lectures_conferences/dopo-cop-27-i-risultati-dellultima-conferenza-sui-cambiamenti-climatici

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