La rimozione di CO2 atmosferica con il biochar
Un’opzione per rimuovere CO2 dall’atmosfera, che coinvolge ancora il suolo, è quella basata sulla produzione e il successivo spandimento sui terreni agricoli del biochar.
Il termine “biochar” è un neologismo, in cui il prefisso “bio” è unito al termine “char”, una forma contratta della parola inglese “charcoal”, in italiano “carbone vegetale”. La scelta linguistica del “bio” è volta ad indicare un uso prettamente “agronomico”, rispetto ad altri usi tipici del passato.
La produzione del char: un processo antico
Il biochar è un materiale carbonioso che si ottiene trasformando termo-chimicamente una qualsiasi biomassa organica, in assenza di ossigeno. Quando la temperatura supera i 200 °C e non c’è ossigeno per innescare la combustione, il materiale organico inizia a modificarsi liberando calore, un liquido denso detto “tar” e un gas infiammabile composto per lo più da monossido e biossido di carbonio (CO e CO2), metano (CH4) e idrogeno (H) che prende il nome convenzionale di syngas. Il processo, noto come “pirolisi” porta alla completa gassificazione anche del tar e se non si eccedono i 600-700 °C non si producono quasi ceneri e la pirolisi giunge naturalmente a termine lasciando un residuo ad alto contenuto di C, infiammabile, leggero e poroso (densità fra 0.2 e 0.6 t/m3). Il carbone vegetale mantiene gran parte della struttura tridimensionale della biomassa originale, lasciando quasi inalterata la trama dei vasi legnosi e di altri elementi che davano sostegno e forma ai tessuti vegetali originali.
La pirolisi è un processo che l’uomo ha imparato a gestire e raffinare ben prima dell’avvento della terminologia moderna. Il carbone vegetale è stato prodotto intenzionalmente a partire dall’Età del Ferro, quando ha svolto un ruolo fondamentale nella metallurgia preistorica per avere poi un grande sviluppo fino all’avvento del carbone fossile. Chiunque abbia passeggiato nei nostri boschi si è certamente imbattuto in qualche vecchia carbonaia; luoghi, questi, dove il legno del bosco veniva trasformato in carbone vegetale attraverso un procedimento assai complicato. La produzione di carbone vegetale sopravvive ancora in molti paesi in via di sviluppo, e soprattutto nell’Africa subsahariana, dove è una fonte di energia fondamentale per le comunità rurali, sia per impieghi artigianali che domestici.
Nei sistemi moderni di pirogassificazioine il syngas, che nelle antiche carbonaie veniva disperso in atmosfera, viene usato come combustibile in motori endotermici destinati alla produzione di energia elettrica.
Dal char al biochar
L’idea che il “char” potesse essere uno “stock” di carbonio altamente resistente alla degradazione e quindi ideale per sequestrare in modo duraturo il CO2 atmosferico fissato dalle piante attraverso la fotosintesi ha preso piede nell’ultimo ventennio. La scoperta di antichi suoli nella regione amazzonica ricchi di carbone vegetale, chiamati la “Terra Petra de los Indios” ne ha favorto l’affermazione. Fu il ricercatore olandese Willy Sombroek il primo a ipotizzare che quei depositi fossero di origine antropica. Luoghi dove le popolazioni locali avrebbero accumulato grandi quantità di carbone vegetale (ma anche altri rifiuti organici e materiali di risulta di lavorazioni ceramiche) per migliorare gli infertili suoli lisciviati dell’area amazzonica. Ma più di recente è stata fatta anche un’ipotesi alternativa e cioè che la formazione di quei suolli sia stata in realtà il risultato di processi naturali di sedimentazione dei “rifiuti” umani rilasciati nell’ambiente (Silva et al., 2021)
Oggi il termine biochar è una delle parole chiave più gettonate della letteratura scientifica internazionale. Google Scholar trova la parola biochar in ben 332 mila documenti pubblicati nel nostro millennio. Ma anche il numero di brevetti legati a produzione, uso e miglioramento delle caratteristiche del biochar è in rapida crescita. Secondo il rapporto “The State of Carbon Dioxide Removal” (Smith et al., 2023), la prima edizione del report internazionale che ha analizzato in dettaglio tutte le tecniche e strategie CDR, il biochar è il secondo metodo CDR in termini di investimenti, dietro solo alla spesa per interventi di afforestazione e riforestazione e contribuisce per quasi un quarto ai 2 miliardi di tonnellate di CO2 sottratte attualmente al bilancio del carbonio atmosferico fra tutti i CDR operativi (dettaglio su questo in post futuri sul tema CDR).
Permanenza dello stoccaggio
La “permanenza” ovvero la durata temporale del sequestro di carbonio ottenuto attraverso l’uso del biochar è ancora oggetto di intensa discussione scientifica. Gran parte del carbone vegetale accumulato dalle comunità palafitticole dell’età del bronzo (oltre 3000 anni fa) nei sedimenti delle cosiddette “Terramara” della pianura padana è ancora rintracciabile oggi, in uno stato solo marginalmente degradato. Sono stati anche rintracciati e osservati frammenti carboniosi di incendi forestali avvenuti oltre 8000 anni fa. Dall’altra parte, i carboni vegetali ottenuti con pirolisi a basse temperature o con tecniche di pirolisi in acqua (hydrochar) hanno permanenze assai più basse, nell’ordine di centinaia di anni. Ciò spiega che la permanenza del biochar usato come ammendante del suolo sia generalmente stimata in un intervallo molto ampio, compreso fra 100 e 10,000 anni (Smith et al., 2023), che dipende dal rapporto tra la frazione labile (facilmente degradabile) e quella recalcitrante. È importante notare che il rapporto tra queste due frazioni non è costante, ma varia a seconda della matrice vegetale e della tecnica di pirolisi. In altre parole, non esiste un solo biochar, ma tanti tipi di biochar con caratteristiche di degradazione diversa.
Biochar e produzione agricola
L’uso del biochar in agricoltura è stata più volte definita come una strategia “win-win-win-win”, ovvero che somma quattro effetti positivi distinti ma complementari: i) il sequestro di CO2 atmosferica, di cui già abbiamo detto, ii) la produzione di energia rinnovabile, a cui abbiamo accennato e di cui diremo più avanti, iii) la riduzione delle emissioni di altri gas serra (N2O e CH4) nel comparto agricolo e iv) i benefici che l’uso di questo ammendante può portare al suolo agrario e alla produzione agricola. In estrema sintesi, l’incorporazione di una matrice leggera, ad elevata capacità di scambio cationico e in grado di assorbire acqua e elementi nutritivi e proteggere la microflora e la microfauna del suolo ha un effetto positivo sulla crescita e produzione delle piante. Una recente meta-analisi della letteratura è giunta alla conclusione che l’incremento medio produttivo attribuibile al solo biochar è del 25.3% ± 3.2, mentre accoppiando l’uso di biochar e fertilizzanti minerali o organici si raggiunge un valore medio di incremento del 180% ± 19 (Bai et al. 2022). Da un punto di vista generale, questo terzo livello di beneficio è di grande importanza anche nel contesto delle politiche di mitigazione perchè è legittimo attendersi che se il costo del biochar diventasse interessante per l’agricoltore, le azioni di mitigazione e CDR ne riceverebbero un grande impulso. Una approfondita discussione sul “costo di convenienza” è stata fatta di recente da Xia et al. (2023). L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change)infine, riconosce l’efficacia dell’uso del biochar nella mitigazione del Cambiamento Climatico e raccomanda l’adozione di metodi per la misura e la verifica (MRV: Monitoring, Report and Verification) per il biochar.
Biochar e altri gas climalteranti
L’uso del biochar riduce significativamente le emissioni di protossido di azoto (N2O) associate alla pratica agricola, fino a oltre l’80% secondo Shrestha et al. (2023). L’aggiunta di biochar alla dieta dei bovini si è rivelata efficace per la riduzione delle emissioni di metano da fermentazioni enteriche. L’aggiunta di biochar riduce le emissioni di CH4 da suoli anossici fino a più del 90% (Shrestha et al., 2023). In entrambe i casi, però, le osservazioni sono talvolta contraddittorie e richiedono ulteriori approfondimenti.
Biochar ed energia rinnovabile
La produzione di biochar attraverso pirolisi e gassificazione “genera” energia a partire da fonti primarie definibili generalmente come “rinnovabili”. Spesso però si trascura il fatto che anche i residui e gli scarti agricoli hanno un “costo emissivo” e cioè hanno generato emissioni di gas serra nel ciclo produttivo. Se non si analizza in dettaglio il bilancio di emissione del substarto, si può quindi solo affermare che l’energia generata attraverso pirolisi e gassificazione è in gran parte ma non interamente “rinnovabile. È il terzo “win” dell’uso del biochar, che assume valore considerando che pirolisi e gassificazione possono essere forme “distribuite” di generazione di energia, specialmente per il sistema rurale agrario dove sono disponibili residui colturali prodotti in azienda che possono essere quindi essere usati per generare biochar, calore ed corrente elettrica in piccoli impianti.
Il potenziale sequestro di CO2 del biochar
La stima del potenziale globale di sequestro di CO2 attraverso l’uso del biochar ha avuto, nell’ultimo decennio, ampie fluttuazioni. Il primo a tentare questa stima fu un articolo pubblicato da Woolf et al. nel 2010 che tenendo conto di un bilancio di massa complessivo (emissioni associate alla produzione dei residui e del processo di trasformazione) azzardò un impatto globale di 1.8 Gt CO2 per anno nell’arco di 100 anni, pari a circa il 12% delle emissioni antropogeniche. Il potenziale effettivamente raggiungibile è stato quindi ricalcolato da Smith (2016) sempre tenendo conto del bilancio complessivo stimando valori compresi tra 0.7-1.3 Gt di C all’anno (2.5-4.7Gt CO2 /anno, media 3.6Gt /anno) utilizzando i residui disponibili da 40-260 Mha di terreni agricoli, globalmente. Valori, questi, sostenibili anche nel lungo periodo, dato che non si dovrebbero verificare effetti di saturazione. Queste stime divergono poco da quanto calcolato dall’IPCC, Sesto Rapporto sul Clima – WGIII (0.3-6.6Gt CO2/anno, media 3.4Gt /anno). L’uso massivo del biochar, sempre secondo lo stesso autore, non comporterebbe aumenti nell’uso della risorsa idrica e contribuirebbe ad aumentare la disponibilità di elementi nutritivi nel suolo e, come sarà spiegato più avanti, renderebbe disponibile una quantità di energia rinnovabile stimabile fra 14 e 65 EJ/anno.
I rischi di un eventuale successo
Ma non dobbiamo sottovalutare che lo sviluppo della filiera biochar porta con sé anche dei rischi. La produzione e soprattutto la distribuzione di biochar nei suoli agricoli possono determinare importanti rilasci di particolato ultrafine in atmosfera (black carbon). Oltre a peggiorare la qualità dell’aria, il particolato ha un effetto diretto attraverso l’assorbimento di radiazione solare a onda corta e la successiva emissione di calore. Ma ne ha anche uno indiretto, associato alla sua inevitabile successiva deposizione sulla superficie, cosa che diventa particolarmente grave sui ghiacciai perché il cambio di colore delle superfici determina un accumulo di calore e quindi un più rapida fusione di neve e ghiaccio.
Un secondo rischio da non sottovalutare ha a che vedere con la variazione di albedo dei terreni trattati con biochar. Diversi studi hanno dimostrato che l’aggiunta di biochar al suolo determina una significativa riduzione di albedo, mentre altri hanno tentato di quantificare in termini di CO2-equivalente quanta parte del sequestro potenziale di CO2 del biochar potrebbe essere controbilanciata dalla diminuzione del rapporto fra energia solare incidente e riflessa dal suolo (Bozzi et al., 2015).
Il terzo fattore di rischio è che se il valore economico del sequestro di carbonio dovesse aumentare e superare una certa soglia minima, una parte non trascurabile delle produzioni agricole di molti paesi poveri potrebbe orientarsi verso la produzione di biomasse e la loro successiva trasformazione in biochar, da poi utilizzare localmente con esplicite finalità di mitigazione. In questo modo si rischierebbe di snaturare lo scopo tradizionale dell’attività agricola, passando dalla produzione di cibo alla produzione di crediti di carbonio, certificabili e eventualmente commerciabili a scala globale. Ciò potrebbe far aumentare la redditività media dell’agricoltura soprattutto laddove il costo della manodopera è molto basso, ma rischierebbe di ridurre ulteriormente l’autosufficienza alimentare di ampi strati della popolazione che oggi già soffre in modo significativo. Gli esempi di land-grabbing, ovvero di utilizzo di suolo in paesi poveri per la produzione di beni non-alimentari per la parte del mondo sviluppato, già non si contano più, e lo sviluppo di una filiera finalizzata esclusivamente ai crediti di emissione potrebbe avere effetti impensati e preoccupanti.
La conclusione di questa rapida carrellata è che pur se i diversi aspetti potenzialmente negativi sopra menzionati devono essere meglio approfonditi, il biochar è una fra le più promettenti strategie di rimozione di CO2 dall’atmosfera, e per questo sta attirando un interesse crescente.
Testo di Franco Miglietta, con contributi di Marina Vitullo e Stefano Caserini
Bibliografia
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Bozzi, E., Genesio, L., Toscano, P., Pieri, M. and Miglietta, F., 2015. Mimicking biochar-albedo feedback in complex Mediterranean agricultural landscapes. Environmental research letters, 10(8), p.084014.
Shrestha, R.K., Jacinthe, P.A., Lal, R., Lorenz, K., Singh, M.P., Demyan, S.M., Ren, W. and Lindsey, L.E., 2023. Biochar as a negative emission technology: A synthesis of field research on greenhouse gas emissions. Journal of Environmental Quality.
Silva, L.C.R., Corrêa, R.S., Wright, J.L. et al. A new hypothesis for the origin of Amazonian Dark Earths. Nat Commun 12, 127 (2021). https://doi.org/10.1038/s41467-020-20184-2
Smith, P., 2016. Soil carbon sequestration and biochar as negative emission technologies. Global change biology, 22(3), pp.1315-1324.
Smith, S. M., Geden, O., Nemet, G., Gidden, M., Lamb, W. F., Powis, C., Bellamy, R., Callaghan, M., Cowie, A., Cox, E., Fuss, S., Gasser, T., Grassi, G., Greene, J., Lück, S., Mohan, A., Müller-Hansen, F., Peters, G., Pratama, Y., Repke, T., Riahi, K., Schenuit, F., Steinhauser, J., Strefler, J., Valenzuela, J. M., and Minx, J. C. (2023). The State of Carbon Dioxide Removal – 1st Edition. The State of Carbon Dioxide Removal. doi:10.17605/OSF.IO/W3B4Z
Woolf, D., Amonette, J.E., Street-Perrott, F.A., Lehmann, J. and Joseph, S., 2010. Sustainable biochar to mitigate global climate change. Nature communications, 1(1), p.56.
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4 responses so far
Nell’articolo, manca una valutazione sui processi utilizzati per produrre il biochar.
Se, per produrre biochar, si parte da biomasse come il legno o, comunque, da matrici abbastanza omogenee e “pulite” (prive di metalli pesanti) è possibile un buon controllo delle emissioni atmosferiche dal processo di pirolisi e/o di gasificazione e la produzione di un char “pulito”.
Matrici che presentano alta variabilità nel contenuto di acqua e nella composizione (ad es.: i fanghi di depurazione), comportano maggiori difficoltà operative nel controllare le emissioni in atmosfera in impianti a scala industriale rispetto all’utilizzo di biomasse legnose. Inoltre, i metalli pesanti contenuti in queste matrici si concentrano nel char. In prima approssimazione si può stimare che si concentrino con il rapporto [sostanza secca / carbonio nella sostanza secca]. Esempi sono gli impianti di gasificazione da fanghi di depurazione di Coblenza e Mannheim (D), dotati di linee di trattamento fumi pluristadio.
Molto opportuno il commento di Roberto C. sopra citato.
Noi abbiamo un processo di pirolisi particolarmente efficace che consente di produrre un “Biochar” articolarmente pulito e di ottima qualità e purezza, partendo da Biomassa legnosa vergine.
Se intererssa approfondire, siamo a disposizione.
Grazie, precisazione assai utile. Il biochar non è una singola cosa, ma ne esistono molte declinazioni. Pochi giorni fa se ne discuteva in un convegno all’Accademia dei Georgofili (Firenze). Alcune caratteristiche ideali per il sequestro di C non sono ideali per il valore ammendante (agricolo) etc. La legislazione corrente italiana già discrimina però fra biochar con contenuti eccessivi di IPA o metalli pesanti. Però concordo, la strada verso una normativa “perfetta” è ancora assai lunga.
Molto interessante l’articolo e i commenti. Voglio solo aggiungere che le applicazioni del biochar non sono solo agricole. Pensiamo ad esempio l’utilizzo nei compositi (cemento, asfalto, polimeri…) in alcune di esse non è richiesta un’elevata “purezza” (anche qui ci sarebbe molto da discutere su cosa si intende per puro) e quindi il biochar che è “sporco” per alcune applicazioni può essere “pulito” per altre.
Infine voglio sollevare un’altra riflessione, dobbiamo concentrarci sulla produzione di biochar non da biomasse “pulite” e “vergini” ma su biomasse di scarto che a volte possono essere miste e “contaminate”. Buon lavoro a tutti noi!