Usare di più le centrali a carbone in Italia aumenterà le emissioni europee di CO2?
L’esistenza del sistema di emission trading (in vigore dal 2015) sembra sconosciuto a molti sedicenti esperti di clima ed energia.
Negli ultimi mesi diversi commentatori hanno indicato l’aumento previsto dell’utilizzo delle centrali a carbone italiane, per compensare gli alti costi e le minori forniture del gas russo, come l’abbandono delle politiche europee sul clima, il tramonto dell’ambizione. Secondo Federico Rampini l’utilizzo del carbone segna “il rinvio dei piani per le energie sostenibili”, mentre per Ferruccio de Bortoli sarebbe nientemeno che l’interruzione della transizione energetica avviata a livello nazionale ed europeo.
Pur se non ci sono dubbi che le centrali a carbone siano la forma di produzione di energia più inquinante e climalterante, e quindi il loro utilizzo andrebbe al più presto ridotto per arrivare al più presto alla loro dismissione, è scorretto sostenere che utilizzare nel breve termine il carbone per far fronte alla scarsità del gas comporti un aumento delle emissioni di CO2 europee e lo smantellamento delle politiche sul tema. Simili conclusioni riflettono la mancanza di conoscenza o comprensione di uno dei capisaldi dell’azione europea contro il cambiamento climatico, il sistema scambio delle quote di emissione (Emission Trading System, ETS).
Cos’è il sistema europeo di emission trading
Entrato in vigore con la direttiva 87 del 2003, il sistema ETS ha creato un unico mercato delle quote di emissioni su scala comunitaria per i grandi emettitori (centrali termoelettriche, cementerie, acciaierie, vetrerie, raffinerie, ecc.)
La prima fase di implementazione (dal 2005 al 2007) è stata una fasa pilota, ma ha permesso di definire i livelli emissivi del 2005, usati in seguito come livello “di riferimento”.
La seconda fase di attuazione ha coinciso con il periodo quinquennale di impegno del Protocollo di Kyoto (dal 2008 al 2012), e consisteva in limiti (“cap”) nazionali, con piani nazionali che definivano obiettivi di riduzione per singolo impianto, sul totale complessivo delle emissioni dei 5 anni. Al termine della seconda fase, nel 2012, anche il settore aviazione è entrato a far parte del sistema di ETS europeo.
È dalla terza fase (2013-2020) che l’ETS è diventato uno dei cardini della politica europea di riduzione delle emissioni. A partire dal Pacchetto Clima-Energia approvato nel 2008 (chiamato spesso “20-20-20”) agli impianti soggetti all’ETS è stato posto un “cap” su scala europea: nel 2020 gli impianti dovevano emettere nel complesso il 21% di CO2 in meno rispetto al 2005. È da notare che la riduzione non doveva avvenire solo nel 2020: l’ammontare delle quote disponibili (il “cap”) si è ridotto progressivamente, per la precisione dell’1,74% ogni anno dal 2013 al 2020, rispetto alle quote medie 2008-12.
Si noti bene che i singoli impianti (italiani, francesi o polacchi) potevano ben emettere più CO2 che nel passato, comprando i diritti ad emettere (“quote” o “crediti”) nel mercato ETS, ossia da altri impianti che emettevano di meno: le riduzioni devono avvenire sul totale delle emissioni europee degli impianti soggetti all’ETS. Altre innovazioni già in questa fase hanno riguardato l’inclusione delle emissioni di N2O da alcuni tipi di impianti.
Nella quarta fase, dal 2021 al 2030, sono state introdotte alcune importanti novità (il rafforzamento della riserva stabilizzatrice del mercato, maggiori finanziamenti da parte della UE, nuove modalità di assegnazione gratuita), ma soprattutto gli obiettivi sono diventati molto stringenti: già con il pacchetto approvato nel 2014 e oggi in vigore sono stati definiti nella riduzione delle emissioni nel 2030 del 43% rispetto alle emissioni del 2005 (riduzione annua delle quote disponibili del 2,2%); ma soprattutto queste riduzioni stanno per essere riviste al rialzo, per essere in linea con i nuovi impegni approvati con la Legge europea sul clima nel dicembre 2021 (riduzione delle emissioni totali europee del 55% nel 2030 rispetto al 1990). La proposta della Commissione europea per gli obiettivi ETS, avanzata nel luglio 2021 nel pacchetto “Fit for 55”, è per una riduzione del 61% nel 2030, rispetto ai livelli del 2005. La coperta si fa sempre più corta, molto più corta.
Un sistema che funziona
Come si può vedere nell’annuale rapporto dell’agenzia Europea per l’ambiente, nel 2020 le emissioni di CO2 equivalente dei grandi emettitori europei soggetti all’ETS (circa 11.000 impianti industriali, più l’aviazione interna all’UE) si sono ridotte del 41% rispetto al 2005; quindi nei prossimi 10 anni sarà necessaria un’ulteriore riduzione del 20%. Notare che per quanto riguarda i settori non coperti dall’ETS (riscaldamento, traffico, piccola industria, agricoltura, ecc.), i cui obiettivi sono definiti a scala nazionale dalle direttive di “effort sharing”, le riduzioni dal 2005 al 2020 sono state “solo” del 15%. Complessivamente, le emissioni europee nel 2020 sono state ridotte del 31% rispetto al 1990, molto di più rispetto all’obiettivo del pacchetto 20-20-20.
Ad oggi, quindi, il sistema europeo dell’emission trading sta funzionando, nel senso che ha assicurato le riduzioni previste dalle politiche europee.
La scarsità e i costi delle quote
Cosa succederà, quindi, se una centrale termoelettrica italiana (o tedesca) brucerà più carbone ed emetterà più CO2? Semplicemente, altri impianti industriali, o le compagnie aeree che gestiscono voli all’interno dei confini europei, dovranno emetterne di meno.
La seconda conseguenza sarà sul prezzo delle quote di CO2. Negli ultimi 5 anni, il costo delle quote di CO2 nel mercato ETS è aumentato sensibilmente, passando dai circa 5€/tonnellata del 2017 alle attuali 84€/ton, con una punta raggiunta ai primi di febbraio 2022 di 97 euro/ton! Un maggiore uso del carbone, che rispetto al gas produce quasi il doppio di emissioni di CO2 a parità di energia prodotta, comporterà quindi una scarsità di quote, con una spinta al rialzo del prezzo della quota di CO2.
Chi davvero vuole ostacolare la politica europea sul clima
Fatto salvo che bisogna ridurre l’uso del carbone (anche per i suoi impatti alla scala locale), ad essere importante per le emissioni europee di CO2 non sarà quindi quanto carbone si brucerà, ma se reggerà il sistema dell’emission trading in caso di un forte aumento del prezzo delle quote. Il timore è che un alto prezzo della CO2, che rende più competitive le fonti rinnovabili e spinge all’innovazione tecnologica, possa portare le forze più retrograde a chiedere di abbandonare il sistema, o di sospenderlo.
Richieste di sospensione sono già arrivate a fine 2021 dalla Polonia e dalla Repubblica Ceca e sono state rilanciate dalla Confindustria italiana, da sempre un freno alle politiche europee sul clima, sia a fine febbraio che a metà aprile 2022.
E questo sì avrebbe conseguenze sulle emissioni europee sul clima, e significherebbe un vero abbandono dell’ambizione europea nella lotta al cambiamento climatico.
Testo di Stefano Caserini, con contributi di Mario Grosso, Sylvie Coyaud, Antonio Caputo e Chiara Arcarese.
2 responses so far
Non mi è chiarissimo questo passaggio: “Il timore è che un alto prezzo della CO2, che rende più competitive le fonti rinnovabili e spinge all’innovazione tecnologica, possa portare le forze più retrograde a chiedere di abbandonare il sistema, o di sospenderlo”
Un alto prezzo della CO2 è la causa, ma le rinnovabili competitive sono una concausa o una conseguenza slegata dalle richieste di abbandonare l’ETS? Perché si capisce che sia una concausa e non vedo come.
@ Mari
Un alto prezzo della CO2 fa sì che un produrrore di elettricità da fonti fossili abbia un costo maggiore nnel produrre energia, che invece non grava sulle rinnovabili, che quindi diventano più competitive.
Poi la competitività delle rinnovabili (eolico e solare in particolare) migliora anche per altri motivi, quali la progressiva riduzione dei costi.