Perché è dannoso esagerare il ruolo delle foreste nella crisi climatica
Una delle soluzioni alla crisi climatica più frequentemente citate è l’aumento della superficie forestale – anzi, semplicemente “piantare alberi”. Una soluzione con molti benefici e apparentemente nessuna controindicazione, che piace a chiunque, e che instilla una visione positiva del futuro. Eppure, una riforestazione dall’efficacia climatica erroneamente amplificata potrebbe facilmente trasformarsi in inerzia o alibi nel ridurre le emissioni e uscire il prima possibile dalle fonti fossili.
La proposta di avvalersi del contributo potenziale al contenimento della CO2 in atmosfera di piantagioni massive di alberi non è nuova. Già alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, Freeman J. Dyson propose un programma mondiale di piantagione di emergenza come risposta temporanea all’aumento dei livelli di anidride carbonica nell’atmosfera, in linea con un numero crescente di scienziati del clima dell’epoca. Dyson prevedeva che la piantagione massiva di alberi a rapido accrescimento potesse essere utilizzata come una “banca del carbonio” in modo da accompagnare la transizione energetica dai combustibili fossili alle energie rinnovabili.
Gli alberi inoltre svolgono un importante contributo all’adattamento, tramite la schermatura e l’ombreggiamento al suolo, l’effetto termoregolatore dell’evapotraspirazione, il contributo alla formazione delle nubi mediante il rilascio di composti organici volatili, la modifica dell’albedo superficiale e l’effetto “frenante “ di chiome e radici nei confronti del deflusso superficiale e dell’instabilità dei versanti.
Tuttavia, piantare un numero significativo di alberi ha alcuni ostacoli tecnici che è necessario affrontare:
- la disponibilità di una superficie di terreno abbastanza fertile e sufficientemente estesa;
- una produzione vivaistica adeguata a produrre le piantine necessarie (ma ad oggi largamente insufficiente);
- una disponibilità finanziaria sufficiente, non solo per produrre e mettere a dimora le piante, ma anche per gestirne le cure colturali almeno nei primi 3-5 anni;
- garantire che gli alberi sopravvivano, scegliendo solo quelli compatibili con clima e suolo locale, e scongiurare gli impatti negativi sulla biodiversità, evitando di utilizzare monocolture o specie esotiche invasive;
- nelle strategie di afforestazione è di estrema importanza scegliere il posto giusto e, per ogni area disponibile, l’albero in grado di soddisfare al meglio i benefici attesi riducendo al minimo (o a zero) gli impatti negativi che potrebbe determinare.
Un’efficacia sovrastimata
Ma soprattutto, la reale efficacia climatica di un piano di afforestazione globale è stata enormemente sovrastimata. Su Climalteranti abbiamo già spiegato nel precedente post “Le foreste ci salveranno?” come, pur se piantare alberi nelle città e mantenere e gestire sostenibilmente le foreste esistenti abbia molti vantaggi, questo non sia sufficiente per affrontare la crisi climatica. Ancora oggi sentiamo invece affermazioni prive di fondamento, che esagerano il ruolo delle foreste e dell’espansione del verde in città: un verde utilissimo sotto il profilo dell’adattamento climatico, ma molto meno determinante sul bilancio del carbonio globale.
Alcuni ricercatori, come Stefano Mancuso, professore di Arboricoltura generale e coltivazioni arboree all’Università di Firenze, suggeriscono che piantare “mille miliardi di alberi” potrebbe permetterci di “guadagnare 60 anni nella lotta al riscaldamento globale, “una finestra fondamentale per convertire il nostro modo di vivere”. A volte gli anni guadagnati diventano 70 o un secolo. Nei titoli di queste interviste si sostiene addirittura che “Le piante ci salveranno dal riscaldamento globale”. In altre parole, anziché dedicarci alla faticosa attività di rapida e drastica decarbonizzazione del sistema energetico (ricordata dallo stesso Mancuso in altre interviste, purtroppo meno citate dai media), rischiamo di restare affascinati dalla visione salvifica di tantissimi alberi che ci permetterebbero di prendere tempo o addirittura di fare per noi tutto il lavoro necessario. Questa tesi, pur dettata dall’amore per le piante e per la natura, non ha basi nella letteratura scientifica, ed è facilmente confutabile.
1000 miliardi… in quanto tempo?
Il numero “magico” di 1000 miliardi di alberi, che ha avuto un indubbio successo mediatico, deriva da uno degli articoli più “chiacchierati” degli ultimi anni in fatto di foreste, The global tree restoration potential, pubblicato dal team di Thomas Crowther del Politecnico di Zurigo nell’estate 2019. Utilizzando dati satellitari accoppiati a una fitta rete di aree di monitoraggio forestali in campo, il team di Crowther aveva stimato in 900 milioni di ettari – un’area grande quanto gli USA – la superficie della Terra attualmente priva di foreste che potrebbe essere potenzialmente interessata da interventi di ripristino forestale (escludendo le aree agricole e urbane). Moltiplicando questa superficie per il numero di alberi che si trovano in media nelle foreste del pianeta, ecco spuntare il “triliardo di alberi da piantare”, a cui si sono subito appassionati anche l’ONU, il World Economic Forum e il G20, oltre a innumerevoli testate giornalistiche e aziende energetiche bisognose di ripulire la propria immagine. Il beneficio climatico di queste nuove foreste veniva calcolato dallo studio moltiplicando gli ettari afforestati per la quantità media di carbonio a ettaro per i principali biomi forestali terrestri, ricavata dai coefficienti IPCC “Tier I”. Risultato: questa misura sarebbe stata in grado di assorbire 750 miliardi di tonnellate di CO2 dall’atmosfera, o “i due terzi del carbonio in eccesso presente in atmosfera” (una frase così riformulata, dopo che gli autori avevano erroneamente affermato “i due terzi del carbonio antropogenico emesso dalla rivoluzione industriale” fino a oggi, che in realtà è circa il doppio).
Copertura forestale potenziale nelle aree disponibili per l’afforestazione, al netto della copertura arborea esistente e delle aree agricole e urbane. Questo “potenziale globale di riforestazione” rappresenta un’area totale di copertura delle chiome di 0.9 miliardi di ettari (da Bastin et al. 2019).
La proposta di piantare mille miliardi di alberi a scala planetaria nasce da alcune considerazioni, la cui base ecologica è robusta, ma alcuni aspetti vanno valutati con attenzione. Fino a circa due secoli fa esistevano 5.000 miliardi di alberi sul Pianeta, oggi se ne stimano 3.000. Piantare 1.000 miliardi di alberi significherebbe ripiantare “solo” la metà di quelli che abbiamo perso. Ma l’efficacia climatica di questa strategia è meno impressionante di quanto sembri. Anzitutto, è espressa in un’unità di misura insolita, dal momento che emissioni e assorbimenti di carbonio si esprimono normalmente in (miliardi di) tonnellate all’anno, cioè rispetto a un’unità di tempo. Non è ben chiaro invece quanto tempo impiegherebbero ad assorbire quel carbonio gli alberi di Crowther, che nel paper si limita a un vago “at maturity”. Si potrebbe obiettare che le soluzioni climatiche, specialmente quelle che dovrebbero “farci guadagnare tempo”, non possono permettersi un tempo di attesa di diversi decenni prima di diventare pienamente operative. Ma anche la stima di 750 miliardi di tonnellate di CO2 era in realtà affetta da diversi problemi di calcolo ed errori ecologici, tanto da essere definita “pericolosamente fuorviante” e dare luogo a una decina di articoli di replica, lettere e richieste di correzione, pubblicate sia da Science che da altre riviste scientifiche del settore (un caso senza precedenti).
Alcuni errori metodologici
Un primo errore risiede nel supporre che tutti gli alberi piantati sopravvivano e che siano efficienti nel sequestro di carbonio, senza tener conto che gli impatti della crisi climatica potrebbero ridurne il potenziale di crescita a causa di stress da siccità, incendi o altri eventi di disturbo. Un’eventualità che si è già concretizzata purtroppo in molte campagne nazionali e internazionali di piantagione di alberi, presentate in pompa magna dai soggetti politici o economici che le hanno promosse ma trasformatesi in clamorosi fallimenti a causa della insufficiente cura dedicata ai giovani alberi piantati di fronte alle pressioni climatiche e della siccità.
Le strategie di regolazione del clima basate sul ripristino delle foreste potrebbero comportare un aumento del rischio di incendi, soprattutto in condizioni più secche e calde in vaste regioni d’Europa, con un impatto sul clima, sull’ambiente e sulla salute umana. Opzioni più intelligenti dal punto di vista climatico, come il ripristino delle zone umide o il recupero dei pascoli, che forniscono benefici simili per il clima ma sviluppano anche un paesaggio meno infiammabile, sono un’opzione più adatta per queste regioni in Europa e altrove che si trovano ad affrontare sfide simili (da Hermoso et al. 2021).
Inoltre, gli autori hanno calcolato lo stoccaggio previsto basandosi su coefficienti medi globali di densità di carbonio forniti dall’IPCC, ignorando però che gli ecosistemi che dovranno ospitare i nuovi alberi stoccano già oggi una certa quantità di carbonio, soprattutto nel suolo, e che quindi il “nuovo” stoccaggio andrebbe conteggiato come differenza tra quello di una foresta e quello dell’uso del suolo attuale. Infine, calcoli come questi ignorano che le foreste non influiscono sul clima solo mediante l’assorbimento di anidride carbonica, ma anche mediante effetti di natura biofisica come la regolazione delle precipitazioni, l’emissione di sostanze volatili che svolgono il ruolo di precursori delle nuvole, e soprattutto il cambiamento di albedo (o riflettività) della superficie terrestre. Proprio quest’ultimo è ritenuto l’effetto di maggiore entità; uno studio recente indica che l’afforestazione, se effettuata in modo da far diminuire l’albedo (come avverrebbe alle alte latitudini) può arrivare a ridurre di circa la metà i benefici climatici prodotti dell’assorbimento di carbonio a scala globale.
Quali aree?
Infine, lo studio ha sicuramente individuato aree attualmente libere da alberi, ma non ha spiegato di che tipo di aree si tratti. Non è chiaro se si tratti di aree di pascolo per gli animali, non realmente libere per la loro trasformazione in boschi; se si tratta di zone con una biodiversità da preservare legata a un ecosistema non forestale (savane, zone umide); né chi siano le comunità e le consuetudini in queste aree. Al ritmo attuale di crescita della popolazione terrestre, è molto probabile che il bisogno di suolo libero da alberi nei prossimi anni non solo non potrà diminuire, ma sarà superiore a quello attuale. È altamente improbabile che sia possibile rinunciare a circa 1 miliardo di ettari di suolo, più o meno fertili, a vantaggio di 1.000 miliardi di alberi, senza determinare gravi conflitti sociali, economici ed ecologici. Questo aspetto è fondamentale sotto il profilo etico, poiché ogni Stato dovrebbe produrre una volontà politica così forte da annullare, in brevissimo tempo, i diritti delle comunità e gli interessi degli eventuali proprietari su quelle stesse aree – un’azione tale da essere definita da Indigenous Environmental Network “una nuova forma di colonialismo”.
Una strategia rischiosa
La riforestazione è certamente parte del mix di soluzioni da mettere in atto per mitigare la crisi climatica. Tuttavia, fare troppo affidamento sulle rimozioni di carbonio, forestali o di altra natura, ci espone a molti rischi: che gli assorbimenti non raggiungano i livelli previsti in futuro; che manchino impegni per portare la rimozione di CO2 ai livelli necessari; e che nel frattempo la CO2 rimossa ritorni nell’atmosfera, aggravando gli impatti sociali, economici e ambientali della crisi climatica e spostando il peso di recuperare le emissioni in eccesso dall’atmosfera sulle generazioni future. Per questo uno studio recente ritiene che un largo affidamento sulla rimozione della CO2 non sia in linea con gli impegni dei Paesi di fornire contributi “giusti” e “ambiziosi” all’obiettivo net-zero, e potrebbe esporre i paesi che ne fanno tale uso a violazioni delle norme e dei principi del diritto internazionale. Le negoziazioni della recente COP28 hanno rispecchiato questi timori, con i Paesi che hanno preferito rimandare all’anno prossimo ogni accordo sullo scambio internazionale di crediti di carbonio.
Inoltre, promuovere la piantagione di alberi quale panacea in grado, da sola, di risolvere la crisi climatica o azzerare l’impatto personale, aziendale o nazionale, può indurre la mistificazione di abbandonare ulteriori azioni di contrasto, mitigazione e adattamento, meno comode in prospettiva socioeconomica e comportamentale, ma più durature e urgenti da intraprendere. Lo stesso Crowther, commettendo un macroscopico errore di comunicazione, definì piantare alberi “la migliore soluzione esistente al cambiamento climatico” – una frase in grado di giustificare “scientificamente” un’ondata di greenwashing senza precedenti da parte di governi e imprese del settore fossile.
Contributo delle soluzioni climatiche naturali economicamente vantaggiose (NCS) alla stabilizzazione del riscaldamento al di sotto dei 2°C.La linea grigia rappresenta le emissioni storiche di CO2 di origine antropica fino al 2016, la linea nera una traiettoria di emissioni business as usual (RCP 8.5), la linea verde la traiettoria delle emissioni nette necessaria per una probabilità >66% di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 °C. Le NCS economicamente vantaggiose offrono il 37% della mitigazione necessaria fino al 2030, il 29% al 2030, il 20% fino al 2050 e il 9% fino al 2100 (da Griscom et al. 2017).
In seguito alle critiche l’articolo venne parzialmente emendato, l’ONU chiarì che il triliardo di alberi era da “proteggere e far crescere”, non solamente da “piantare”, e Crowther sparì dalle scene scientifiche per qualche anno (pur restando alla ribalta del mondo corporate delle compensazioni climatiche) per poi cercare di riabilitarsi con un profondo mea culpa.
Eppure, ancora oggi – forse soprattutto in Italia – c’è chi può parlare ancora di piantare un triliardo di alberi, come se il dibattito non avesse mai avuto luogo; e grandi aziende emettitrici possono continuare a promettere compensazioni mirabolanti con programmi di piantagione di alberi che, se assommati insieme, coprirebbero in teoria 1.6 miliardi di ettari globali, un territorio superiore a quello globalmente utilizzato dall’agricoltura, come dimostrato da un recente rapporto di Oxfam. Per tutti questi motivi, lo standard più elevato di certificazione volontaria net zero per aziende, lo Science based target initiative, non accetta come strategia di compensazione l’impianto di nuovi alberi e foreste.
Il ridimensionamento nelle stime più recenti
Più recenti studi globali (qui, qui e qui) hanno invece stimato un potenziale di assorbimento “extra” di 0.9 – 3.0 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente all’anno da parte di un programma di rimboschimento globale, cioè il 2-8% delle emissioni annue dovute all’uso di combustibili fossili ai livelli odierni. Lo stesso ordine di grandezza è riportato dalla sintesi dell’ultimo rapporto di valutazione dell’IPCC (vedasi “Ecosystem restoration, afforestation, reforestation” qui). È evidente come piantare alberi non sia l’unica soluzione climatica sufficiente, senza una riduzione sostanziale delle emissioni climalteranti alla fonte. E anche in questo caso, il carbonio immagazzinato dagli alberi dovrebbe essere conteggiato non come un assorbimento definitivo, ma potenzialmente non permanente. Secondo uno studio della Concordia University di Montreal pubblicato nel 2023, una tonnellata di CO2 emessa in atmosfera dovrebbe essere compensata non con una, ma con 30-130 tonnellate di CO2 assorbita in modo temporaneo dagli alberi.
Infine, anche il Crowther Lab ha recentemente rivisto le sue stime in modo più realistico. In uno studio pubblicato su Nature , che abbiamo raccontato nel precedente post, Crowther e colleghi hanno calcolato che le strategie di afforestazione su aree non a uso forestale, urbano o agricolo avrebbero un potenziale di stoccaggio di 334 Gt di CO2 (il 50% in meno della loro stima precedente), a cui sono da sommare altre 510 Gt ottenibili conservando o ripristinando aree forestali degradate o comunque utilizzate dall’uomo per usi economici (usi che comunque non potrebbero, né forse dovrebbero, scomparire all’istante). Inoltre, in questa stima non sono incluse le emissioni da incendi, che sarebbe possibile prevenire almeno in parte mediante azioni di prevenzione – di carattere non solo culturale, ma anche basate su una gestione forestale “climaticamente intelligente”.
Una soluzione costosa
Dobbiamo considerare infine anche che, tra le soluzioni nature based, la riforestazione è quella più costosa in termini di euro per tonnellata di carbonio assorbita. Stimando prudenzialmente un costo medio compreso tra 3 e 5 dollari a pianta, ci sarebbe bisogno di destinare alla piantagione di 1.000 miliardi di alberi un budget compreso tra 3.000 e 5.000 miliardi di dollari – una cifra 30-50 volte superiore a quella che i Paesi del mondo hanno faticosamente raggranellato dopo 8 anni di promesse come contributo al fondo di solidarietà climatica internazionale alla fine del 2023.
Stima del potenziale di mitigazione delle strategie di soluzione climatica naturale economicamente vantaggiose (meno di 100 dollari per tonnellata di CO2) in America Latina, Africa e Asia. Sebbene tutte le opzioni abbiano effetti positivi, la protezione delle foreste, delle torbiere e delle mangrovie ha un potenziale di mitigazione del clima doppio rispetto alla riforestazione (da Griscom et al. 2020).
Una lezione per la comunicazione
Anche la lezione comunicativa è stata imparata: gli autori mettono in guardia dal fare troppo affidamento sulle foreste per raggiungere gli obiettivi climatici, poiché gli assorbimenti forestali potrebbero diminuire e anche trasformarsi in fonti nette di CO2 entro la fine di questo secolo a causa dei crescenti impatti della crisi climatica e degli eventi estremi ad essa collegati (come siccità e incendi). La futura evoluzione degli assorbimenti forestali in risposta ai cambiamenti climatici e alla gestione delle foreste è tuttora materia di intenso dibattito scientifico; i limiti di resilienza degli ecosistemi forestali sono ancora in parte ignoti, e la scienza produce continui aggiornamenti sulla previsione della capacità fotosintetica degli ecosistemi e dei complessi fattori fisiologici e ambientali che la regolano (ad esempio qui) – ragione di più per adottare un approccio precauzionale e non commettere l’errore di sovrastimare il possibile contributo delle foreste nel prossimo futuro.
Testo di Giorgio Vacchiano, con contributi di Stefano Caserini, Giacomo Grassi, Mario Grosso.
10 responses so far
Mi aspettavo un instant-post sui risultati della COP28, ma ci stanno ancora rimuginando, evidentemente.
Sugli alberi, secondo me una buona soluzione potrebbe essere piantare non foreste, ma piantagioni di alberi a rapida crescita destinati alle costruzioni edili, diffondendo in paesi che oggi le usano poco o niente le tecnologie moderne di edilizia con il legno, che garantiscono edifici solidi, resistenti al fuoco, ottimamente isolati di default, veloci da costruire e spesso più economici (molte parti sono prefabbricate industrialmente).
In Svezia stanno realizzando una intera città con queste tecniche.
https://www.firstpost.com/explainers/sweden-plan-worlds-largest-wooden-city-stockholm-wood-city-12801082.html#:~:text=The%20wooden%20city%2C%20titled%20Stockholm,world's%20largest%20%E2%80%9Cwooden%20city%E2%80%9D.
I vantaggi di questo approccio sono notevoli.
1) C’è un ricambio degli alberi sugli stessi terreni, e così serve meno terra a parità di carbonio sequestrato
2) Il legno non sta lì fuori per decenni con il rischio di prendere fuoco o marcire, ma il suo carbonio viene immagazzinata per secoli in una forma molto più stabile e sicura.
3) Il legno sostituisce l’uso di cemento e acciaio, che sono fra le fonti maggiori di CO2 antropica.
4) Il legno è già naturalmente un isolante termico e acustico, per cui queste nuove abitazioni porteranno a ridurre l’uso di energia, e quindi di CO2, anche per la loro climatizzazione.
Una soluzione win-win-win-win….
Articolo non molto convincente dove si nota un singolare accanimento verso la riforestazione.
I 3000-5000 miliardi di dollari che costerebbe l’intera operazione vengono fatti passare per una gran cifra, ma sono il 5% del PIL mondiale, una percentuale in linea con quanto richiesto per la transizione energetica, solo che il 6% di PIL che va dirottato sulle rinnovabili deve essere allocato ogni anno per venti e più anni.
La riforestazione potrebbe essere un modo per fare ciò che si diceva si sarebbe dovuto fare in agricoltura, ovvero investire.
Cosa che non si è mai fatta, perché bisogna lasciare fare al mercato.
(Il land grabbing ovviamente non è un investimento ma una pura e semplice rapina.)
Armando, l’articolo sarà anche non molto convincente secondo lei, ma secondo me lei si è fermato al solo aspetto economico, tralasciando gli altri, forse più importanti. La questione dell’effetto biofisico delle foreste, è importante. Piantare una foresta (con albedo basso) dove prima c’era un prato (albero alto) soprattutto alle alte latitudini (dove nevica spesso) può avere un effetto peggiore del beneficio dell’accumulo di carbonio. Questo non lo dico io (che di foreste so molto poco) ma un mio collega tra i massimi esperti del settore. E anche tra gli autori di questo articolo ci sono nomi molto famosi in ambito scientifico ‘forestale’. Quindi prima di dare giudizi tranciati col falcetto (per restare ‘in tema’) magari abbia l’umiltà di considerare che chi scrive ne sa molto più di lei.
@ Alessandro
Può essere benissimo, per carità.
È il tono astioso ed ex cattedra che non mi convince.
Lo stesso tono dell’articolo sul ritardo italiano nell’adozione dell’auto elettrica, che ripropone i peggiori luoghi comuni sul nostro paese.
In particolare i commenti trasudano il più vieto (auto)razzismo, con i paesi frugali elevati invece a modello.
Quegli stessi paesi che, fra parentesi, renderanno la transizione europea economicamente non fattibile grazie alla loro predilezione per le politiche mercantiliste e deflazioniste.
https://www.wired.com/story/stop-planting-trees-thomas-crowther/
Interessante, sempre sul tema del post
Spero che non abbiate da dire anche su questo…
https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fsoil.2023.1161627/full
@Armando
non ho capito a cosa si riferisce quando parla di tono astioso ed ex cattedra che, sinceramente, non ho riscontrato e nemmeno nel tanto criticato articolo sull’auto elettrica che, tra l’altro, si limita a confrontare e a riportare dati a livello nazionale ed europeo.
Che si sia in ritardo sull’auto elettrica è vero, che l’Italia sia sempre in colossale ritardo su qualsiasi cosa che riguardi l’ambiente (le eccezioni sono a livello locale e riguardano forse un settore industriale..quello del riciclo) non mi pare necessario sottolinearlo nuovamente: che la ‘tecnologia’ endotermica abbia 150 anni è un dato di fatto e non si capisce perchè goda di tanto rispetto e adorazione coi problemi che comporta (sopratutto sanitari). E che la politica del ‘tutto va bene madama la marchesa’ abbia le stagioni contate è certo.
Che la discussione sia ‘rigida’ è vero, perchè si basa su dati e pubblicazioni: qui non trova opinioni, trova dati. Se sostiene un’esame universitario e spara cavolate a caso il professore minimo le farà un cazziatone/ramanzina (sa quante ne ho subite personalmente..un fiume). Del resto chi scrive in questo blog è del settore e casomai chi non lo è dovrebbe stare attendo al paludone immenso che confina con le opinioni personali che, in ambito scientifico, valgono come il campionato di calcio del 2006.
Chiudo con un aneddoto che riguarda gli alberi: sono 6 anni che tento di far ripiantare all’amministratore due alberi confinanti con una via di scorrimento ultra-inquinata (e sarebbe un’obbligo in realtà, visto il regolamento comunale..). Quando ero studente a Vienna proposi (ironia della sorte) la stessa cosa al proprietario di casa: scrisse lui al comune e andai a portare la lettera proprio dietro il famoso teatro del concerto del primo dell’anno, durante una nevicata marzolina fortissima. Il 4 aprile piantarono due mandorli davanti alla mia finestra.
Questi maledetti austriaci..così inefficienti..vuoi mettere noi invece.
[…] Perché è dannoso esagerare il ruolo delle foreste nella crisi climatica […]
@ Stefano Carnevali
Gli austriaci, dunque.
Lei ha seguito il dibattito sul patto di stabilità?
Come si può conciliare un meccanismo così perverso con la transizione energetica?
Infatti non si può.
I suoi austriaci saranno stati bravi a piantare due mandorli, ma vedrà che saranno in prima fila a far fallire tutto ciò che è necessario per mobilizzare gli investimenti ri
scusi Armando, ma un paese come l’Austria cosa dovrebbe fare secondo lei? Lei parla di ‘far fallire’, ma è sicuro che l’Italia, ad esempio, non sia già fallita da anni? Una democrazia che non riesce ad applicare un minimo di regole di vivere civile (è questo a cui mi rivolgevo con gli anneddoti di cui sopra..) e nemmeno a far pagare le tasse a chi non le paga mai, perchè dovrebbe suscitare compiacimento o pietà in paesi che basano le proprie regole su rispetto, prima di tutto, delle stesse?
E la mancata transizione di questi anni, in cui si poteva investire seriamente in eolico e sopratutto fotovoltaico, chi l’ha pagata scusi? Il politico di turno, il colosso industriale, la grande azienda multinazionale o il cittadino, costretto ad una fornitura forzata di fossili per alimentare la propria cucina o il riscaldamento di casa?
Sembra quasi che l’immobilismo paghi mentre le transizioni costino e basta. Ma non sempre è così.