Le tesi dell’inattivismo climatico – parte I: gli impatti dell’energia solare e eolica
Sul sito del Corriere della Sera sono state riproposte molte tesi tipiche dell’inattivismo climatico, che hanno l’obiettivo di rallentare la transizione energetica. Pubblichiamo qui la prima parte di una serie di post che hanno l’obiettivo di confutare queste argomentazioni, partendo da quella secondo cui gli impianti di energia rinnovabile, e in particolare di solare fotovoltaica e eolica, avrebbero forti impatti ambientali, o che non sarebbero convenienti da un punto di vista ambientale. Una tesi basata su esagerazioni, distorsioni e a volte sostenuta con argomenti stravaganti.
L’articolo pubblicato sulla rubrica “Opinioni” del Corriere della Sera del 10 settembre 2025, a firma di Massimo Ammaniti e Francesco Pratesi, rappresenta un ottimo esempio della narrazione “inattivista” sul clima, che diffonde informazioni false e tesi infondate sulla transizione energetica.
Come già argomentato in precedenti post, l’inattivismo climatico è molto diverso dal negazionismo: infatti, gli autori scrivono in apertura “ridurre le emissioni inquinanti che danneggiano l’ambiente è oggi una sfida indispensabile, anche perché gli effetti del cambiamento climatico sono davanti agli occhi di tutti: ondate di calore, siccità, eventi estremi di fronte ai quali è impossibile continuare a sottovalutarli e addirittura a negarli” e che “è necessario che l’Europa e l’Italia si impegnino a trovare soluzioni adeguate dal momento che le strade intraprese fino ad ora non sembrano le più efficaci e sostenibili”. Il problema è che, dopo l’affermazione dell’importanza della lotta alla crisi climatica, nel discorso inattivista arrivano i “ma”, i “tuttavia”, i “però”; a cui seguono tesi che di fatto arrivano a contestare quanto si sta facendo per contrastare la crisi climatica. Senza di fatto proporre alternative concrete, se non generici appelli a fare meglio o retoriche aspirazioni benaltriste.
Le cicatrici permanenti
L’articolo inizia con l’utilizzo di una tipica tecnica retorica, l’iperbole, ossia prefigurare scenari in cui lo sviluppo delle rinnovabili diventerebbe “un nuovo “boom” senza regole, come avvenne con la speculazione edilizia selvaggia degli anni ’60 e ’70 che ha lasciato cicatrici permanenti nel tessuto ambientale delle nostre coste, delle città e dei paesi”, in cui si rischierebbe di avere “torri eoliche alte più di 200 metri e distese sterminate di pannelli fotovoltaici neri in zone agricole, turistiche, di valore paesaggistico e archeologico”.
Non si può certo negare che qualche impianto possa avere impatti paesaggistici, ma lo scenario descritto sembra chiaramente una distorsione della realtà. Innanzitutto, perché la dismissione di un impianto fotovoltaico ed eolico non è certo complessa, se confrontata con quella di una centrale termoelettrica, nucleare, o di una raffineria. Dunque, è davvero poco credibile che la cicatrice possa essere permanente. Inoltre, il paragone con il boom edilizio o la speculazione edilizia non regge. Rispetto agli edifici, gli impianti rinnovabili sono molti di meno, si trovano in altri luoghi e pongono problemi paesaggistici completamenti diversi. Il richiamo alla speculazione edilizia è un “argomento fantoccio” (straw man fallacy), usato per evitare di affrontare la questione vera, i reali vantaggi e svantaggi di questi impianti per il territorio.
Il ciclo di vita di solare ed eolico
Un altro argomento inattivista molto utilizzato e presente nell’articolo è che, se si considerasse il ciclo di vita degli impianti, eolico e fotovoltaico avrebbero bilanci negativi. Questo tipo di tesi, destituito di ogni fondamento, è solitamente esposto in modo confuso, senza chiari riferimenti scientifici, e utilizza spesso in modo sistematico i dati più pessimistici per le rinnovabili. Ad esempio, nell’articolo citato di Ammaniti e Pratesi si scrive che torri eoliche e pannelli fotovoltaici avrebbero una durata “di circa vent’anni”: in realtà mentre per la pale eoliche del passato la durata era di 20 anni, per i nuovi impianti la durata è stimata intorno ai 25 anni, e si può anche estendere la vita operativa anche oltre 30 anni con adeguati interventi di manutenzione; per gli impianti fotovoltaici la durata degli impianti attuali è già stimata in 25-30 anni (si veda qui e qui). Senza contare che buona parte dei materiali che li compongono si possono già oggi riciclare. In ogni caso, tutti gli studi sul ciclo di vita degli impianti a energie rinnovabili mostrano un tempo di pay-back massimo di 2-3 anni, anche per installazioni complesse come parchi eolici offshore (si veda ad esempio qua). Per le “batterie energetiche” si scrive che la durata sarebbe di appena dieci anni, ma va ricordato che oltre alla durata nell’utilizzo principale, stimata in 8-15 anni (in relazione a tipologia, cicli di carica, condizioni termiche), quando la capacità si riduce al di sotto del livello per cui non è più considerata adeguata per un veicolo (es. 70%), una batteria può avere ancora 5-10 di utilizzo “second life” in applicazioni meno esigenti, ad esempio come accumulo stazionario per impianti solari/eolici. Successivamente le batterie esauste possono subire processi di remanufacturing (ovvero disassemblaggio finalizzato alla riparazione e al ripristino delle componenti), e solo all’ultimo di riciclo vero e proprio, finalizzato a recuperare tutti gli elementi principali. Sulla durata effettiva delle batterie in condizioni reali vale inoltre la pena citare i risultati di un recente studio di Stanford, che ha rilevato una longevità effettiva delle batterie dei veicoli superiore del 40% rispetto a quanto atteso.
I danni “in via di conferma” dei materiali degradabili delle pale eoliche
Fra le argomentazioni utilizzate contro l’energia solare ed eolica ci sono anche quelle stravaganti, proposte senza curarsi più di tanto della loro fondatezza, ma basate su dicerie. Ad esempio, nell’articolo di Ammaniti e Pratesi si scrive che pannelli solari e pale eoliche conterrebbero “materiali degradabili, che si liberano nell’atmosfera con effetti pericolosi in via di conferma”. Non è chiaro di quali materiali degradabili si parli, e perché sarebbero così pericolosi. Prima di proporre una tesi del genere, servono dati, riferimenti, studi. E converrebbe aspettare le conferme, prime di spaventare con tesi non ancora validate dalla comunità scientifica.
La caratteristica del discorso inattivista è che, mentre esagera o inventa gli impatti ambientali di pannelli solari e pale eoliche, nulla dice sugli impatti delle loro alternative, le centrali a gas o carbone; queste sì che rilasciano senza alcun dubbio ingenti quantità di sostanze nell’atmosfera, non biodegradabili e dannose per la salute e il clima. Si veda ad esempio il recente rapporto “Dalla culla alla tomba, i costi ambientali dei combustibili f ossili e l’imperativo della transizione giusta”.
Infrasuoni
Fra le esagerazioni presenti nelle contestazioni alle energie rinnovabili, una presente nell’articolo di Ammaniti e Pratesi è quella secondo cui “le pale eoliche generano infrasuoni che si propagano nell’atmosfera anche a chilometri di distanza ripercuotendosi sui ritmi psicobiologici umani, come i ritmi del sonno, documentati anche da ricerche recenti”. In realtà, la letteratura scientifica disponibile (si veda qui, qui o qui o qui) non indica impatti sulla salute di infrasuoni derivanti da pale eoliche. Nella letteratura sono presenti molti studi che hanno valutato possibili impatti acustici degli impianti eolici, riferiti a chi vive nelle immediate vicinanze degli impianti. Da questi emerge come l’effetto principale legato al rumore delle pale eoliche sia ilfastidio, il disagio, ma raramente il rumore è associato a effetti clinici oggettivi.
Riguardo agli infrasuoni (ossia suoni con bassa frequenza, inferiore a 20 Hertz), secondo gli studi i livelli non sono percepibili, soprattutto a “km di distanza”, e non ci sono prove che causino effetti fisiologici, ossia che abbiano un impatto diretto documentato sulla salute. Pur se alcuni singoli studi (ad esempio questo) hanno indicato impatti più significativi degli infrasuoni, non rappresentano certo l’attuale consenso scientifico sul tema.
Conclusione
Tutti siamo d’accordo che lo sviluppo degli impianti rinnovabili debba avvenire minimizzando gli impatti sull’ambiente, posto che un impatto zero è ovviamente impossibile; ed è bene ricordare nuovamente a tale scopo che le installazioni di impianti eolici e fotovoltaici di grossa taglia sono disciplinate dalla Valutazione di Impatto Ambientale a livello nazionale. Ma non ci sono argomenti seri a sostegno della tesi che fare seriamente la transizione energetica comporterà per forza impatti ambientali significativi, e che questi saranno paragonabili a quelli – ben documentati – dei combustibili fossili: si tratta solo di un argomento retorico, basato su una semplificazione della realtà e sull’uso di luoghi comuni, che in ultima analisi fa unicamente il gioco dell’industria fossile.
Testo di Stefano Caserini, con contributi di Mario Grosso
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