Il clima come bene comune
Nel dibattito sul pontificato di Papa Francesco, recentemente scomparso, poco spazio ha ricevuto l’attivismo del Pontefice sulla questione climatica, che si è manifestato in numerosi atti. Innanzitutto la lettera enciclica Laudato Si’- sulla cura della casa comune pubblicata nel 2015, cui ha fatto seguito nel 2023 l’esortazione apostolica Laudate Deum – a tutte le persone di buona volontà sulla crisi climatica. Inoltre, col pontificato di Bergoglio, la Santa Sede è diventata parte dell’UNFCCC, ha ratificato l’Accordo di Parigi (presentando il primo Biennal Transparency Report), e ha spinto ordini religiosi e secolari (Francescani per primi), istituzioni caritatevoli tradizionali (tipo Caritas), e le Ong di base ad attivarsi sul contrasto al riscaldamento globale antropogenico.
Sicuramente l’enciclica Laudato ha avuto risonanza mondiale, ha richiamato l’attenzione pubblica sulla crisi climatica, e ha avuto molta importanza nel mondo cattolico, portando alla nascita di numerose associazioni e movimenti che si sono richiamati a questa enciclica, come “Laudato Si’ – Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale”, il Laudato Si’ Movement e il Laudato Si’ Generation in Australia.
Con la Laudato Si’ la chiesa cattolica ha riconosciuto interamente i risultati della comunità scientifica e la rilevanza della questione climatica, spazzando via le correnti negazioniste sul clima presenti anche nella chiesa cattolica (si veda il capitolo “Clima Teo Con” di A qualcuno piace caldo”).
Come mostrato dai passaggi in seguito riportati, l’Enciclica è entrata nel dettaglio della scienza del clima, del ciclo del carbonio, degli impatti attesi e delle conseguenze sociali degli stessi, collegando la crisi climatica alla giustizia sociale e alla solidarietà intergenerazionale.
- Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti. Esso, a livello globale, è un sistema complesso in relazione con molte condizioni essenziali per la vita umana. Esiste un consenso scientifico molto consistente che indica che siamo in presenza di un preoccupante riscaldamento del sistema climatico. Negli ultimi decenni, tale riscaldamento è stato accompagnato dal costante innalzamento del livello del mare, e inoltre è difficile non metterlo in relazione con l’aumento degli eventi meteorologici estremi, a prescindere dal fatto che non si possa attribuire una causa scientificamente determinabile ad ogni fenomeno particolare. L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano. È vero che ci sono altri fattori (quali il vulcanismo, le variazioni dell’orbita e dell’asse terrestre, il ciclo solare), ma numerosi studi scientifici indicano che la maggior parte del riscaldamento globale degli ultimi decenni è dovuta alla grande concentrazione di gas serra (biossido di carbonio, metano, ossido di azoto ed altri) emessi soprattutto a causa dell’attività umana. La loro concentrazione nell’atmosfera ostacola la dispersione del calore che la luce del sole produce sulla superficie della terra. Ciò viene potenziato specialmente dal modello di sviluppo basato sull’uso intensivo di combustibili fossili, che sta al centro del sistema energetico mondiale. Ha inciso anche l’aumento della pratica del cambiamento d’uso del suolo, principalmente la deforestazione per finalità agricola.
- A sua volta, il riscaldamento ha effetti sul ciclo del carbonio. Crea un circolo vizioso che aggrava ancora di più la situazione e che inciderà sulla disponibilità di risorse essenziali come l’acqua potabile, l’energia e la produzione agricola delle zone più calde, e provocherà l’estinzione di parte della biodiversità del pianeta. Lo scioglimento dei ghiacci polari e di quelli d’alta quota minaccia la fuoriuscita ad alto rischio di gas metano, e la decomposizione della materia organica congelata potrebbe accentuare ancora di più l’emissione di biossido di carbonio. A sua volta, la perdita di foreste tropicali peggiora le cose, giacché esse aiutano a mitigare il cambiamento climatico. L’inquinamento prodotto dal biossido di carbonio aumenta l’acidità degli oceani e compromette la catena alimentare marina.
Se la tendenza attuale continua, questo secolo potrebbe essere testimone di cambiamenti climatici inauditi e di una distruzione senza precedenti degli ecosistemi, con gravi conseguenze per tutti noi. L’innalzamento del livello del mare, ad esempio, può creare situazioni di estrema gravità se si tiene conto che un quarto della popolazione mondiale vive in riva al mare o molto vicino ad esso, e la maggior parte delle megalopoli sono situate in zone costiere.
- I cambiamenti climatici sono un problema globale con gravi implicazioni ambientali, sociali, economiche, distributive e politiche, e costituiscono una delle principali sfide attuali per l’umanità. Gli impatti più pesanti probabilmente ricadranno nei prossimi decenni sui Paesi in via di sviluppo. Molti poveri vivono in luoghi particolarmente colpiti da fenomeni connessi al riscaldamento, e i loro mezzi di sostentamento dipendono fortemente dalle riserve naturali e dai cosiddetti servizi dell’ecosistema, come l’agricoltura, la pesca e le risorse forestali. Non hanno altre disponibilità economiche e altre risorse che permettano loro di adattarsi agli impatti climatici o di far fronte a situazioni catastrofiche, e hanno poco accesso a servizi sociali e di tutela. Per esempio, i cambiamenti climatici danno origine a migrazioni di animali e vegetali che non sempre possono adattarsi, e questo a sua volta intacca le risorse produttive dei più poveri, i quali pure si vedono obbligati a migrare con grande incertezza sul futuro della loro vita e dei loro figli. È tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa. Purtroppo c’è una generale indifferenza di fronte a queste tragedie, che accadono tuttora in diverse parti del mondo. La mancanza di reazioni di fronte a questi drammi dei nostri fratelli e sorelle è un segno della perdita di quel senso di responsabilità per i nostri simili su cui si fonda ogni società civile.
- Molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di ridurre alcuni impatti negativi di cambiamenti climatici. Ma molti sintomi indicano che questi effetti potranno essere sempre peggiori se continuiamo con gli attuali modelli di produzione e di consumo. Perciò è diventato urgente e impellente lo sviluppo di politiche affinché nei prossimi anni l’emissione di biossido di carbonio e di altri gas altamente inquinanti si riduca drasticamente, ad esempio, sostituendo i combustibili fossili e sviluppando fonti di energia rinnovabile. Nel mondo c’è un livello esiguo di accesso alle energie pulite e rinnovabili. C’è ancora bisogno di sviluppare tecnologie adeguate di accumulazione. Tuttavia, in alcuni Paesi ci sono stati progressi che cominciano ad essere significativi, benché siano lontani dal raggiungere una proporzione importante. Ci sono stati anche alcuni investimenti in modalità di produzione e di trasporto che consumano meno energia e richiedono minore quantità di materie prime, come pure in modalità di costruzione o ristrutturazione di edifici che ne migliorino l’efficienza energetica. Ma queste buone pratiche sono lontane dal diventare generali.
Ma va detto che non sono mancate le critiche all’enciclica Laudato Si’. Oltre a proporre una visione sospettosa della tecnologia, in cui la denuncia del “paradigma tecnocratico dominante” è sembrata coinvolgere in generale il progresso tecnologico, la critica principale è l’aver impostato la questione ambientale e climatica come legata ad una crisi morale e spirituale, riducendo la complessità strutturale tecnica e politica del cambiamento climatico a una questione di volontà personale o collettiva.
Questo limite dell’enciclica è stato per esempio ben riassunto nell’articolo “Sociological limitations of the climate change encyclical” da Erik Olin Wright (University of Wisconsin-Madison), in un articolo pubblicato su Nature cimate Change di cui proponiamo alcuni passaggi.
In primo luogo, sebbene l’enciclica riconosca certamente i modi in cui mercati, pratiche commerciali e politiche statali hanno contribuito al degrado ambientale, questi vengono trattati principalmente come espressione dell’incessante azione della “ragione strumentale”, e delle sue forme culturali connesse. Queste forme culturali sono le cause sociali sottostanti i processi che danneggiano l’ambiente e perpetuano l’ingiustizia sociale. Una visione alternativa tratterebbe la struttura capitalista dell’economia e la struttura debolmente democratica dello Stato non semplicemente come espressione di un paradigma culturale sottostante, ma come processi causali di per sé, relativamente autonomi.
Il fatto che le imprese capitaliste perseguano profitti a breve termine ignorando le esternalità ambientali non è semplicemente dovuto a una mentalità particolare dei dirigenti di tali imprese; è dovuto alle dinamiche della concorrenza e alla natura dei rapporti di potere all’interno di un’economia capitalista. Analogamente, l’assenza di azioni statali efficaci è dovuta principalmente al profondo intreccio tra potere economico e potere statale. La mentalità di capitalisti, manager e funzionari politici è in larga misura una conseguenza della struttura e del funzionamento di un’economia e di un sistema politico capitalisti, piuttosto che una spiegazione autonoma di tale funzionamento. L’implicazione è che, affinché le aspirazioni dell’enciclica si realizzino, il compito fondamentale è trasformare questi sistemi.
In secondo luogo, una volta riconosciuto che per risolvere la crisi ambientale è necessario trasformare le strutture di potere all’interno dell’economia e dello Stato capitalisti, diventa improbabile che ciò possa essere realizzato attraverso una rivoluzione culturale della mentalità delle élite. I potenti interessi che si oppongono a un autentico ripristino dell’equilibrio ecologico e a una seria lotta contro la povertà globale devono essere sconfitti attraverso il confronto politico, piuttosto che semplicemente convertiti a una mentalità più compassionevole ed eticamente fondata. Anche se alcuni individui ricchi e potenti rifiutano la cultura dominante, la speranza di una tale conversione su larga scala all’interno dell’élite non è una strategia credibile. La mobilitazione politica deve essere parte della strategia, e come parte di tale mobilitazione ci si può aspettare che si verifichino conflitti piuttosto aspri, con vincitori e vinti. A parte qualche fugace riferimento alla pressione dei cittadini (§179, 206) e agli sforzi del movimento ecologista (§166), l’enciclica tace sulla necessità di un confronto basato sulla mobilitazione delle masse.
Infine, se gli obiettivi morali dell’enciclica richiedono di sfidare le strutture di potere del capitalismo e dello Stato, allora devono essere sviluppate forme efficaci di capacità collettiva per affrontare tali sfide. L’enciclica non dice nulla su questo tema. La teoria implicita nell’enciclica è che il cambiamento culturale, se diffuso, si traduce più o meno automaticamente nella necessaria azione collettiva per il cambiamento istituzionale. L’enciclica afferma che “è necessario un modo diverso di guardare le cose … che insieme generino resistenza all’assalto del paradigma tecnocratico” (§107). Non vi è, tuttavia, alcuna discussione sui veicoli politici necessari per tradurre i nuovi modi di pensare in un’azione collettiva efficace. Non viene presentata alcuna teoria sulla capacità di lottare, solo il desiderio di alternative.
Questa è una lacuna classica nelle analisi sociali: una descrizione dei torti è considerata sufficiente a spiegare il conflitto. In tali resoconti, il problema di aggregare i torti dei singoli individui in una forma di lotta collettivamente efficace scompare. Ma, come sappiamo da innumerevoli studi, i torti spesso non riescono a generare azione per molte ragioni. In particolare, nel mondo odierno, i cambiamenti nell’opinione pubblica non si traducono agevolmente in politiche pubbliche a causa della mancata risoluzione dei problemi organizzativi dell’azione politica, anche in sistemi politici relativamente democratici. Ciò di cui abbiamo bisogno è una teoria dell’organizzazione collettiva – movimenti sociali, partiti politici, sindacati – e di come questi mobilitino (o non mobilitino) le persone per l’azione collettiva.
La sfida della nostra epoca include i temi articolati nell’enciclica: la trasformazione culturale per aumentare la consapevolezza delle questioni etiche nei nostri rapporti con la natura e la società, gli sforzi per indebolire il potere del consumismo e dell’individualismo dilagante per definire gli orizzonti dell’azione, e così via. Ma se vogliamo realizzare efficacemente i valori emancipatori di giustizia sociale, democrazia, comunità e sostenibilità, dobbiamo anche sfidare le strutture dominanti di potere e di privilegio della società capitalista. Per riuscirci, abbiamo bisogno di qualcosa di più della semplice conversione morale.
In conclusione, un’enciclica non è un trattato e non può certamente essere risolutiva dell’enorme problema del riscaldamento globale antropogenico. Tuttavia, è significativo che un’autorità religiosa di livello globale abbia finalmente compreso e messo al centro della sua attività la questione climatica, pur con tutti i limiti che derivano dalla preparazione e dall’impostazione ideologica e religiosa. E c’è da chiedersi se il successore che verrà manterrà la stessa spinta.
Testo di Simone Casadei, con contributi di Stefano Caserini, Marina Vitullo, Vittorio Marletto e Sylvie Coyaud.
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