Per inaugurare la nuova sezione “didattica” di Climalteranti, pubblichiamo un esperimento che permette di riprodurre in laboratorio i principali meccanismi dell’effetto serra planetario
Materiale usato per l’esperimento:
Un contenitore cubico (o cilindrico) in materiale plastico (Nalgene) di dimensioni circa (20x20x20) cm.- una lampada 150 W (Osram®) a incandescenza con concentratore – numerosi termistori (Pasco Scientific®) (i termistori sono termometri che hanno bassa capacità termica e accuratezza e risoluzione elevate)- anemometro a filo caldo Delta Ohm® “HD 2103.2” – argon, biossido di carbonio e protossido di azoto in bombola (99.5%) con i corrispondenti regolatori di pressione ed adattatori per i collegamenti- autorespiratore per l’ultilizzo del protossido di azoto (CEA Estintori S.p.A.)- fibre di seta private della parte solubile gentilmente fornite dal laboratorio “BIOthech” Mattarello (Trento)- bottiglioni di plastica per termalizzare il gas (ossia aspettare che dopo essersi espanso (e quindi raffreddato) dalla bombola o dall’impianto torni a temperatura ambiente), connessioni varie di acciaio, fogli di alluminio da cucina, nastro adesivo a due facce- una termocoppia ultraveloce di tipo K autocostruita- termometro infrarosso (“optris®”)- • telecamera a infrarossi (T9 Fluke)
Negli ultimi 2 secoli il sistema climatico terrestre ha mostrato notevoli cambiamenti dovuti sia a cause naturali che umane; l’aumento della temperatura media terrestre è una delle questioni meglio documentate e la comunità scientifica è sostanzialmente concorde nel ritenere che il meccanismo fisico alla base del riscaldamento climatico sia l’effetto serra atmosferico e che l’uomo attraverso la continua immissione in atmosfera di gas serra abbia rinforzato tale fenomeno.
È quindi di grande interesse per la didattica scolastica una simulazione sperimentale dell’effetto serra planetario che sia semplice e “robusta”, in cui fossero evidenziati i fenomeni chiave ed i limiti della simulazione stessa.
Nella letteratura scientifica dedicata all’insegnamento della fisica, si trovano alcune indicazioni su come riprodurre tale fenomeno. L’apparato sperimentale generalmente proposto è costituito da pochi e semplici elementi. Molte delle simulazioni che si trovano in letteratura [vedi 2a, 2b, 2c, 2d, 2e] risultano tuttavia povere di dettagli sperimentali o perfino concettualmente imprecise. Per questo abbiamo deciso di analizzare con maggiore precisione il “classico esperimento” atto a simulare l’effetto serra. Continua a leggere…
In un post precedente abbiamo visto come il riscaldamento in Italia abbia qualitativamente rispecchiato l’andamento globale, ma con un maggiore incremento della temperatura. Questo andamento può essere inserito nel quadro delle proiezioni per il Mediterraneo; nel IV Rapporto IPCC si legge infatti:
“Annual mean temperatures in Europe are likely to increase more than the global mean. The warming in northern Europe is likely to be largest in winter and that in the Mediterranean area largest in summer.“ (“É probabile che le temperature medie annuali in Europa aumenteranno più della media globale. Il riscaldamento è probabile che sia più grande in inverno in Nord Europa, e in estate nell’area mediterranea”)
La frase citata contiene un riferimento stagionale differenziato per diverse regioni europee: ci si aspetta che l’area mediterranea, e quindi l’Italia, si riscaldi maggiormente d’estate che d’inverno. Possiamo fare di nuovo ricorso ai dati stagionali ISAC-CNR per vedere cosa è successo finora.
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Quando si parla di riscaldamento globale si tende spesso a fare riferimento a situazioni regionali, quando non addirittura locali, ed a singoli eventi limitati temporalmente. Così facendo si mette da parte il significato dell’aggettivo globale. D’altronde, non foss’altro perché è ciò che viviamo nel quotidiano, è normale che ognuno di noi sia interessato anche all’andamento locale e in particolare agli eventi estremi, resi più probabili dalle mutate condizioni climatiche.
In linea di principio il riscaldamento su piccola scala potrebbe non essere in sintonia con l’andamento globale poiché localmente, anche a fronte di un riscaldamento generalizzato del pianeta, si risente maggiormente delle variazioni della circolazione atmosferica e di eventuali feedback locali.
Grazie al lavoro certosino dei ricercatori del Historical Climatology Group dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima (ISAC) del CNR, l’Italia possiede una delle più lunghe serie storiche di temperatura esistenti. Con a questi dati è possibile avere un’idea abbastanza precisa di cosa sia successo in Italia negli ultimi due secoli.

Fig. 1: Anomalia in Italia rispetto al 1951-1980. Linea nera: dati annuali; linea rossa dati con filtro 15 anni. Continua a leggere…
I presidenti di Stati Uniti e Cina si impegnano a limitare l’accumulo degli idrofluorocarburi (HFC) in atmosfera e a modificare in tal senso il protocollo di Montreal. Ma il peso di questi gas nel futuro aumenterà.
Gli studi di Rowland, Molina e Crutzen, insigniti nel 1995 del Nobel per la chimica, avevano dimostrato negli ani ’70 che gli atomi di cloro, provenienti dalla fotoscissione dei clorofluorocarburi (CFC), erano responsabili con grande efficienza della distruzione delle molecole di ozono stratosferico, più dell’acido cloridrico di origini vulcaniche e di altri composti clorurati e bromurati naturali. I CFC immessi per molti anni nell’ambiente sono infatti volatili, chimicamente stabili e non solubilizzati dalle piogge; possono così risalire fino alla stratosfera dove i raggi UV solari più energetici rompono i legami cloro-carbonio liberando quindi gli atomi di cloro, che a loro volta attaccano le molecole di ozono.
Il problema fu affrontato, come è noto, con la Convenzione di Vienna per la difesa dello strato di Ozono (1985) e con il successivo protocollo di Montreal (1987), che mise al bando i CFC, che fino ad allora erano impiegati come gas refrigeranti nei frigoriferi industriali e civili, come propellenti nelle bombolette spray e nell’industria elettronica per pulire i microchip da particolato e umidità. Continua a leggere…
La recente riduzione dell’attività solare prelude a unaPiccola Era Glaciale, come ipotizzato da alcuni scienziati? Non proprio. L’effetto delle emissioni di gas serra è di gran lunga dominante e nella corsa del riscaldamento globale un Sole quieto ci farebbe guadagnare solo qualche decimo di grado.
Due anni fa ha destato un certo interesse l’ipotesi avanzata da alcuni fisici solari secondo cui il sole potrebbe entrare in una fase di attività particolarmente bassa con una totale assenza di macchie solari. Non che sia in sé una ipotesi eclatante, sappiamo bene che l’attività solare non è costante. Ma l’unica fase di quiete ben documentata di cui siamo a conoscenza si è verificata nella seconda metà del XVII secolo (minimo di Maunder) e per la fisica solare sarebbe senz’altro interessante poterne seguire un’altra con gli strumenti di monitoraggio moderni.
Quarant’anni fa la paleoclimatologia era una disciplina ancora giovane ma l’attività solare era stata seguita ogni tanto ad occhio nudo e dettagliatamente sin dalla costruzione dei primi cannocchiali con il conteggio delle macchie solari. Queste osservazioni permisero a Sporer e Maunder verso la fine dell’800 di identificare quello che oggi chiamiamo minimo di Maunder. Nel J.A. Eddy pubblicò un lungo articolo sull’attività solare e il minimo di Maunder dove ipotizza un nesso fra quest’ultimo e la cosiddetta Piccola Era Glaciale (PEG). Eddy non aveva a disposizione ricostruzioni di temperatura ben assestate su scala globale, l’esistenza della PEG era legata più che altro a notizie storiche sul freddo intenso e sull’avanzamento dei ghiacciai alpini. Ma l’idea era suggestiva e da allora è stata ripresa e approfondita più volte. Continua a leggere…
Pubblichiamo l’intervista di Emanuele Bompan e Paolo Savoia a Naomi Oreskes, autrice di “Merchant of Doubt”, la cui versione originale è stata pubblicata in inglese su Climate Science & Policy, la rivista online del CMCC
«Il dibattito è concluso. Sappiamo cosa dice la scienza. Conosciamo i rischi, e sappiamo che il momento di agire è questo». Con queste parole, nel giugno del 2005, il governatore della California Arnold Schwarzenegger annunciò l’inizio della sua battaglia per ridurre le emissioni di gas serra. Schwarzenegger aveva ragione. Dalla metà degli anni ’90 nella comunità scientifica si è raggiunto un consenso di base sul riscaldamento globale, e l’agenzia indipendente Intergovernmental Panel on Climate Change dichiarò già nel 2001 senza esitazioni che «la maggior parte del riscaldamento osservabile negli ultimi 50 anni dipende dalle attività umane». Eppure, il dubbio è ancora diffuso. Una discreta parte di opinione pubblica in Nord America, ma anche nel Vecchio Continente, e alcuni autorevoli scienziati – per esempio i fisici Fred Singer, consulente della Casa Bianca durante la seconda amministrazione Reagan, e Frederick Seitz, tra le altre cose consulente della R.J. Reynolds Tobacco Company ma anche nel Vecchio Continente, sono convinte che non ci siano prove conclusive sul riscaldamento globale, o che se esso è reale non possiamo stabilire se dipenda da cause umane, oppure che se è reale e dipende dall’uomo, non ci si può comunque fare nulla. Com’è possibile? Non ci si può fidare nemmeno della scienza? Continua a leggere…
Come raccontato nello scorso post, sul Wall Street Journal Will Happer e Harrison Schmitt hanno di nuovo rilanciato alcune tesi del negazionismo climatico. L’ultimo degli argomenti usati è che le piante attuali soffrono per la troppo bassa concentrazione di CO2.
Per capire come le piante reagiscono alla CO2, è necessario approfondire il funzionamento del processo di fotosintesi.
Le gimnosperme si sono evolute attorno a 370 milioni di anni fa, quando la CO2 era fra i 2000 e le 3000 ppm, le angiosperme circa 165 milioni di anni fa, quando la CO2 era a poco meno di 2000 ppm. Le piante di origine più primitiva usano una forma di fotosintesi che si adatta meglio a queste concentrazioni elevate di CO2; sono chiamate “piante C3” perché nel processo di fotosintesi un enzima fissa la CO2 in un composto a tre atomi carbonio, il fosfoglicerato, ma soprattutto i loro stomi foliari fanno passare acqua e CO2 insieme. Nelle odierne condizioni di “relativa” carenza di biossido di carbonio (rispetto a 370 milioni di anni fa), richiedono quindi tanta più acqua in quanto, per ogni molecola di CO2 che entra, perdono quantità significative di acqua. A questa situazione, le piante C3 si sono magnificamente adattate: sono diffuse su tutto il pianeta e rappresentano il 90% delle specie. L’evoluzione ha permesso loro di tenere magnificamente il campo, ha portato allo sviluppo, circa 50 milioni di anni fa, di nuove piante C4 e CAM (come i cactus, le crassulacee), così chiamate perché nel loro processo fotosintetico l’enzima cruciale della fotosintesi, fissa la CO2 in un composto a 4 atomi di carbonio, l’ossalacetato; sono piante in grado di sopportare molto meglio un basso livello di CO2 e l’aridità. In effetti nelle serre attuali si tende ad aumentare la concentrazione di CO2 per incrementare la produttività delle piante C3.
L’enzima della fotosintesi C3, il più abbondante enzima presente sulla crosta terrestre (la ribulosio-1,5-bisfosfato carbossilasi/ossigenasi) amichevolmente detto rubisco, non è particolarmente efficiente. A25°Ce nelle attuali condizioni, come substrato circa 1 volta su 5 riconosce l’ossigeno invece della CO2, il che lo induce a produrre una sostanza fondamentalmente inutile nel metabolismo della pianta: il glicolato. La reazione compete con quella utile. Con l’aumento della temperatura, questa inefficienza del 20% peggiora ulteriormente. Continua a leggere…
Il 9 maggio 2013, per la prima volta da circa 4 milioni di anni, la concentrazione giornaliera di CO2 atmosferico misurata a Manua Loa ha superato 400 ppmv. Lo stesso giorno sul Wall Street Journal, a firma di William Happer e Harrison Schmitt, è comparso una “Difesa del biossido di carbonio” da incrementare perché sfamerà il mondo. Ma non è affatto detto.
William Happer è un fisico atomico e Harrison Schmitt un geologo, ex astronauta ed ex senatore repubblicano e nessuno dei due si occupa di climatologia o ha pubblicato in questo settore. Entrambi sono membri di istituti finanziati da varie industrie per “creare controversie” su questioni scientifiche, il primo del George C. Marshall Institute e il secondo dello Heartland.
Nell’articolo, sostengono classiche tesi “negazioniste” arricchite di nuovi sapori:
1) l’aumento della concentrazione di CO2 comporta anche aspetti positivi perché aumenterà la produttività agricola
2) è cessato il riscaldamento globale, “non c’è la minima prova che più anidride carbonica abbia causato più eventi estremi”, anzi di più, c’è una scarsa correlazione tra il riscaldamento e la concentrazione di CO2 (cioè non c’è manco l’effetto serra!)
3) la attuale concentrazione è bassa secondo gli “standard geologici” perché 65 milioni di anni fa era pari a circa 3000 ppm
4) le piante soffrono per la concentrazione troppo bassa.
La conclusione è: smettiamola di “demonizzare” la CO2.
Si tratta delle normali falsità o mezze verità che fanno una enorme confusione nella testa dei lettori. In realtà, la correlazione fra riscaldamento globale ed effetto serra della CO2 è nota dall’Ottocento; della presunta fine del riscaldamento globale abbiamo parlato in questo post e sull’aumento degli eventi estremi in ottobre. Continua a leggere…
La cosa originale dell’articolo di Elena Dusi pubblicato su Repubblica non è l’aver dato una notizia (il mancato riscaldamento.. in barba ai modelli) infondata, ma il fatto che sia stato ripreso da altri giornali con risultati piuttosto divertenti. Analizzare quanto successo fa capire come funziona un certo tipo di informazione, e perché i giornali più seri non dovrebbero “sparare” bufale nei titoli in prima pagina.
Il quotidiano Libero è partito da quanto scritto su Repubblica in un misurato articolo intitolato “Il riscaldamento globale non c’è, ma ci è già costato 300 miliardi”, firmato da Maurizio Stefanini e pubblicato l’11 aprile.
A differenza dell’articolo di Dusi, si tratta di un articolo negazionista, che sostiene l’inesistenza del problema climatico e l’inutilità di occuparsene. L’occhiello“Ambientalisti smentiti” sembra voler confinare il riconoscimento del riscaldamento globale in corso a qualche associazione ambientalista, mentre l’esistenza e la gravità di questo problema è stato accettato non solo da tutte le organizzazioni scientifiche, ma dal G8 e da tutti i paesi del mondo in centinaia di documenti, dalla Convenzione ONU sul Clima (nel 1992!) al “Doha Gateway” (2012). Continua a leggere…
Proviamo a spiegare di nuovo la differenza partendo dall’articolo “Il mistero della Terra che non si surriscalda più”, uscito su Repubblica il 10 aprile.
“Dal 1998 [il pianeta] non ha registrato nessun aumento di temperatura, in barba a tutti i modelli climatici che prevedevano un riscaldamento continuo causato dall’effetto serra…”
scrive Elena Dusi. Frase da negazionista, non da giornalista sicuramente al corrente di fatti che nessuno contesta. Il decennio scorso è stato più caldo del precedente, che è stato più caldo del precedente che è stato più caldo del precedente. E i 9 anni più caldi sono stati registrati tutti quanti dal 1998 in poi, proprio da quando la temperatura avrebbe smesso di aumentare.
Il breve attacco in prima pagina rimanda a p. 47 dove l’occhiello e il titolo ripetono:
La temperatura resta più alta di 0,75 gradi rispetto a un secolo fa, ma dal 1998 a oggi non è mai aumentata. (…) Secondo gli esperti può essere un “time out”.
Bel mistero, in effetti. Che non sia il caldo a governare i processi del ghiaccio, come alcuni sembrano ritenere?

I lettori di Repubblica si rassicurino. Gli esperti citati dal loro quotidiano dicono che la Terra continua a scaldarsi. Sono gli autori di “Retrospective prediction of the global warming slowdown in the past decade” uscito su Nature Climate Change. Il loro modello mostra che, alla superficie di continenti e mari, il tasso di riscaldamento è rallentato (ma non fermato, come riferito da Elena Dusi) da un maggior assorbimento di calore/energia nei primi 700 metri da parte degli oceani.. Confermano così un’analisi dei dati registrati in mare e in atmosfera, uscita nel gennaio 2012 su Nature Geoscience. Continua a leggere…
Nel 1938 Callendar fu il primo a mostrare che la terra si stava scaldando, e suggerì che molto di quel riscaldamento era dovuto all’aumento di CO2 causato dall’uso dei combustibili fossili

Guy Stewart Callendar (1898-1964) fu un ingegnere inglese che iniziò a occuparsi della sua passione, la meteorologia, durante i primi decenni del XX secolo, quando il dibattito sui cambiamenti climatici era sostanzialmente sopito. Dopo il lavoro pionieristico di Arrhenius e la critica di Angstrom, la scienza restava senza una teoria largamente accettata che spiegasse quale potesse essere la causa dei grandi cambiamenti climatici del passato, già noti all’epoca.
Riprendendo l’idea di Arrhenius, al meticoloso Callendar venne in mente di valutare quale fosse stato l’andamento della temperatura media planetaria negli ultimi decenni. Ricorse alla raccolta dello Smithsonian “World Weather Record” che includeva i dati di circa 200 stazioni con diversi milioni di dati, e ne valutò l’affidabilità e quella che oggi chiameremmo omogeneità, cioé la coerenza nel tempo dei modi e sistemi di misura. Lo stesso fece con le scarse misure di concentrazione di CO2 disponibili all’epoca.
Callendar presentò alla Royal Meteorological Society i risultati della sua ricostruzione della temperatura media planetaria degli ultimi cinquant’anni, una novità assoluta,. I dati raccolti mostravano un lieve ma misurabile aumento delle temperature e che il riscaldamento risultava essere maggiore nell’emisfero nord, alle alte latitudini e in quota, tutti fenomeni coerenti con un aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera. Rifece dei calcoli simili a quelli di Arrhenius utilizzando dati aggiornati ma, sappiamo oggi, considerando erroneamente solo il bilancio radiativo in superficie. Le pubblicazioni di Callendar (qui la più importante) attirarono una certa attenzione, ed i libri di testo di climatologia del 1940 e 1950 includevano normalmente un breve riferimento ai suoi studi. Ma la maggior parte dei meteorologi considerò scarsamente credibile l’idea di Callendar. Continua a leggere…
La fine dell’Olocene e l’inizio dell’Antropocene emergono chiaramente dall’unione delle temperature ricostruite negli ultimi 11000 anni e da quelle attese per i prossimi 100.
Di recente, grande scalpore ha suscitato la pubblicazione su Science della ricostruzione delle temperature dell’Olocene (circa gli ultimi 11.000 anni) da parte di Shaun Marcott, Jeremy Shakun, Peter Clark e Alan Mix, dell’università dell’Oregon e Harvard: il grafico a fianco è uno dei risultati principali.
Il lavoro di Marcott e colleghi è scientificamente molto rilevante ed originale, non solo per gli aspetti metodologici. Mostra che il recente riscaldamento globale è senza precedenti negli ultimi 1500 anni e le temperature attuali sono superiori a quelle del 75% dell’Olocene. Pur se, come in tutte le proposte innovative, alcuni dettagli si possono discutere e potrebbero cambiare nel futuro (così funziona la scienza), la ricostruzione ha una sua solidità, e i soliti tentativi di denigrazione da parte dei soliti sospetti faranno la solita fine (al riguardo si veda un eccellente post degli autori su Realclimate e i link in esso presenti). Continua a leggere…
Una volta chiarita la catena di responsabilità nella gestione dei rischi posti dai cambiamenti climatici, quali sono gli anelli sui quali operare per tener conto dell’aggravamento dei rischi di eventi estremi?
A nostro avviso, gli anelli cruciali sono il primo, le conoscenze scientifiche, e l’ultimo, il trasferimento delle informazioni.
Servirà dare più impulso alla ricerca scientifica per comprendere quali siano i processi fisici che vengono mal simulati e colmare le lacune dei modelli di previsione. In tempo di crisi economica, in Italia gli investimenti per la ricerca sono i primi ad essere tagliati, ma speriamo in un’inversione di tendenza, visti i rischi che si corrono a rimanere nell’ignoranza.
C’è tanto da lavorare sui sistemi della comunicazione, soprattutto per chiudere quell’ultimo miglio della catena che raggiunge i cittadini, i quali devono e dovranno diventare più consapevoli delle condizioni di rischio nel proprio territorio e quali sono i piani di messa in sicurezza e della Protezione civile. Sono informazioni che devono pretendere dai propri amministratori.
Oggi, il più delle volte, la gente ritiene poco probabili gli eventi estremi e la percezione di questo rischio è piuttosto debole. Quando diventeranno più frequenti, per effetto dei cambiamenti climatici, potrebbero provocare un senso di panico, di ansia sociale. E l’ansia non aiuta certo a compiere azioni razionali.
Però sottovalutare i rischi può avere conseguenze tragiche. Come trovare un giusto equilibrio tra l’ottimismo ingiustificato [nota 1] e uno stato d’ansia perenne? Continua a leggere…
Climalteranti saluta con soddisfazione la costituzione della Società Italiana per le Scienze del Clima (SISC), un passo in avanti della comunità scientifica italiana per meglio collaborare e far conoscere il risultato dei propri lavori.
Come si può leggere sul sito www.sisclima.it, la SISC si propone “come punto di incontro tra gli scienziati dei diversi settori disciplinari che utilizzano le informazioni climatiche per le proprie ricerche: dai climatologi ai fisici e chimici, dai geografi agli agronomi, dagli economisti agli scienziati politici, a tutti gli studiosi che si occupano di scienze legate al clima e alle loro applicazioni” e “vuole contribuire al progresso scientifico e all’innovazione delle scienze climatiche in Italia promuovendo la convergenza delle discipline e la multidisciplinarietà delle ricerche”.
Uno dei primi appuntamenti della SISC sarà la Prima Conferenza Annuale che si svolgerà a Lecce il 23 e 24 settembre 2013, con il titolo “I cambiamenti climatici e le loro implicazioni sui servizi ecosistemici e la società”. Per due giorni esperti italiani provenienti dalle diverse discipline si confronteranno per analizzare gli avanzamenti conseguiti nelle scienze del clima, fare il punto della ricerca sulle implicazioni dei cambiamenti climatici sui servizi ecosistemici, così come sulle politiche climatiche e le conseguenti valutazioni economiche.
Tutte le informazioni sulla Prima Conferenza Annuale SISC sono disponibili alla pagina web www.sisclima.it/conference20133.
Per tutto quello che c’è da sapere sulla Società Italiana per le Scienze del Clima, invitiamo a visitare il sito web ufficiale
Come possiamo affrontare le crescenti condizioni di rischio poste dai cambiamenti climatici? chiedevamo alla fine della prima parte.
Prima di rispondere, conviene descrivere l’attuale “catena” della responsabilità per la gestione di questi eventi, e chi sono i suoi protagonisti. La “catena”ha molti attori che usano strumenti diversi di monitoraggio, di previsione, di gestione delle allerte, di comunicazione dei rischi alle popolazioni. Ci sono i meteorologi, gli idrologi, i geologi, i “protettori civili”, i comunicatori del rischio. In fondo ci sono poi gli amministratori (prefetti, sindaci…) e quindi i cittadini.
Il tema è la mitigazione del rischio da alluvione, causata da eventi meteorologici avversi, soprattutto da quelli intensi e di breve durata.
Per ridurre questi rischi è necessario operare in due diverse modalità strettamente interconnesse: una opera nel “tempo differito”, l’altra nel “tempo reale”.
La prima attiene al mondo dei “pianificatori” territoriali: le Autorità dei Bacini (o Distretti) Fluviali, ad esempio, che per conto dello Stato e assieme alle Regioni devono ridefinire i “Piani di Assetto Idrogeologico” (PAI). Queste attività devono essere svolte in ottemperanza a precise norme dello Stato, ad esempio alla recente legge di recepimento (qui), della Direttiva 2007/60 sulle alluvioni dove si fa esplicito riferimento anche ai possibili impatti dei cambiamenti climatici. Si legge infatti che “…le alluvioni sono fenomeni naturali impossibili da prevenire. Tuttavia alcune attività umane (come la crescita degli insediamenti umani e l’incremento delle attività economiche nelle pianure alluvionali, nonché la riduzione della naturale capacità di ritenzione idrica del suolo a causa dei suoi vari usi) e i cambiamenti climatici contribuiscono ad aumentarne la probabilità di accadimento e ad aggravarne gli impatti negativi.” Continua a leggere…